Ursula Le Guin, cercando l’orlo estremo delle cose
Dici fantascienza e pensi a Asimov, Dick o Bradbury. Ma all’inizio non ci fu un Isaac o un Philip o un Ray ma una Mary. A questa londinese vissuta a cavallo di due secoli, Mary Shelley, e alla sua creatura, Frankenstein, dobbiamo un contributo fondamentale alla fantascienza. In quel romanzo c’erano Rousseau e il mito (Prometeo), la visione di un mondo nuovo in cui avanzavano l’industria e le nuove scoperte scientifiche e la consapevolezza che l’uomo poteva varcare i confini della vita e della morte.
Dopo di lei sono tante le voci femminili che hanno raccolto il testimone delle utopie di fine Ottocento e arricchito questo genere letterario, ne hanno mostrato le opportunità e lo hanno trasformato, utilizzandone gli stilemi –il ribaltamento dei concetti di spazio e del tempo, il ruolo del viaggio- per parlare di ecologia e pacifismo, di identità e genere, per interrogarsi su se stesse e sul proprio corpo (vedi alla voce cyborg). Una fantascienza dirompente, che si sottrae ai canoni codificati e abbatte i muri tra i generi, compresi quelli letterari, e i linguaggi.
A questa nutrita pattuglia appartiene a pieno titolo Ursula K. (sta per Kroeber, il suo cognome di nascita) Le Guin, autrice di capolavori come La mano sinistra delle tenebre, I reietti dell’altro pianeta, Il Ciclo di Earthsea, con i quali ha fatto incetta di prestigiosi premi, dal Premio Hugo (ben 5), al Nebula al National Book Award, tanto per citarne qualcuno, attirando l’attenzione anche di quel geniaccio di Hayao Miyazaki.
Sarebbe sbagliato tuttavia considerare la scrittrice americana, che ci ha lasciato lo scorso 22 gennaio, solo una stella di un genere letterario ben frequentato e assai amato, perché Le Guin è soprattutto una mente originale e profetica, che ha anticipato e approfondito temi come la costruzione sociale dell’identità di genere, i cambiamenti climatici, l’alienazione dell’uomo contemporaneo, e una straordinaria scrittrice che ha ispirato i più grandi autori del nostro tempo.
Figlia di due antropologi, Ursula Le Guin cresce a Berkeley in una casa sommersa dai libri, sempre piena di intellettuali e profughi in fuga dalla Germania di Hitler. Prende la penna per scrivere le sue storie da bambina, la sua prima opera viene rifiutata dagli editori, e la stessa sorte seguono i primi romanzi e racconti. Finché arriva La mano sinistra delle tenebre, e con questo arriva anche la fama internazionale e i riconoscimenti a una mente acuta e brillante, capace di osservare la realtà con lenti diverse.
Il realismo, allo stato attuale, è forse il mezzo meno adatto a decifrare e dipingere la nostra esistenza, afferma la scrittrice nel suo discorso di accettazione del National Book Award. Ma, prosegue
Si affidava alla scienza e alla tecnologia Le Guin, senza dimenticare tuttavia che il mito è uno dei modi in cui conosciamo e comprendiamo il mondo, colleghiamo le cose e costruiamo rapporti con esso, e che quando l’intelletto fallisce –ed è destinato inesorabilmente a fallire- i vecchi miti riemergono, vivi e potenti come sempre, perché
Naturalmente non c’erano solo la scienza e i miti a dominare il suo pensiero, che si concentrava pure sul ruolo dello scrittore, sulla sua responsabilità e capacità di penetrare in sé stesso, di frequentare la sua ombra, di percorrere sentieri inesplorati per potere incunearsi nelle cose del mondo, ma anche sui limiti del linguaggio e della costruzione sociale della persona, sull’identità, il corpo, il sesso. E sulla verità.
Nell’introduzione a La mano sinistra Le Guin svela come la condizione del narratore poggi in fondo su un ossimoro, dal momento che
E a proposito della scrittura spiega che l’artista non è una fotografia che riproduce esattamente la realtà, non è un uomo che inanelli un fatto dopo l’altro, perché il suo interesse è rivolto alla verità. E la verità risiede non fuori, lì dove i fatti si inverano, ma in sé stessi e può essere coltivata solo riflettendo, leggendo, studiando, imparando a descrivere il proprio mondo. Emily e Charlotte Bronte, Jane Austen non avevano altro orizzonte che quello su cui si affacciavano le loro case nella campagna inglese. Non era quello il luogo a cui guardavano tuttavia, ma quello sconfinato della loro interiorità, uno spazio aperto e complesso, in cui ci si può anche perdere. E la letteratura appartiene agli eremiti, agli eretici, a folli, sognatori, ribelli e scettici, parafrasando un altro eretico famoso, Evgenij Zamjatin.
Ora Mary Shelley è nella sua stanza in cima alla torre. Sta sognando, mentre fuori imperversa il temporale. Sogna una donna che nei suoi libri ha continuato a spingersi verso il limite, a cercare l’orlo estremo delle cose.
(Nelle immagini copertine de La mano sinistra delle tenebre)