Una lingua è una lingua è una lingua è una lingua
Un anno fa Annamaria Testa lanciava sul web la petizione #dilloinitaliano sulla necessità di aprire gli occhi su neologismi e forestierismi dilaganti nel linguaggio comune, ma non sempre benvenuti. L’Accademia della Crusca accolse l’invito, sostenuto da un’ampia mobilitazione (70 mila adesioni in pochi giorni), istituendo Incipit, una Commissione chiamata a monitorare l’uso degli anglicismi e a proporre idonei sostituti. Nel frattempo, il dilagare di termini come bail in o spending review ha continuato a dimostrare gli effetti dirompenti sulla comunicazione pubblica del nostro (pessimo) rapporto con le lingue così come i limiti di una acquisizione poco meditata di vocaboli nati in contesti culturali diversi.
Certo, le lingue straniere sono il nostro tallone d’Achille, dovremmo imparare a conoscerle meglio, per evitare vocaboli incomprensibili, storpiature, fraintendimenti e ambiguità che saranno a volte anche buffe o esilaranti ma che di sicuro non giovano alla corretta comprensione dei termini del discorso e, più in generale, al dibattito democratico. Il che vale soprattutto quando sono utilizzate nei documenti pubblici (gli esempi della stepchild adoption, che letteralmente significherebbe adozione del figlio del partner, indipendentemente dal genere sessuale, e del numero di anglicismi presenti ne La Buona Scuola sono, da questo punto di vista, emblematici, per non parlare dell’Orientamento long life invece che lifelong, che ha stazionato a lungo sul sito del MIUR).
Ogni lingua è un sistema complesso–sintattico, morfologico, fonologico- ma soprattutto è un corpo vivo che dialoga con altri sistemi linguistici e si arricchisce delle novità del parlato.

E poiché non vogliamo che la nostra lingua muoia, sarebbe irragionevole pensare di rivendicare una purezza linguistica mai esistita, visto che tutte le lingue sono il fertile e sempre imperfetto frutto di meticciato, quando si tratta di accettare –o meglio, di non avere paura di accettare- il cambiamento come effetto naturale del vivere in una comunità allargata. Questo non significa, naturalmente, accogliere in modo indiscriminato l’ingresso di termini stranieri all’interno della nostra galassia linguistica, ma sarà la comunità dei parlanti a decidere, volta per volta, come sottolinea Domenico Cortelazzo nello Speciale dedicato al tema sul sito Treccani.it,
Il che conduce -inevitabilmente- a riflettere sull’uso manipolatorio di alcuni vocaboli, compiuto dalla politica per occultare o rendere meno indigesti argomenti ‘divisivi’ o controversi. Poter selezionare la soluzione ritenuta più adeguata ad esprimere un concetto e tutelare della propria lingua diventano così due facce della stessa medaglia, che rimandano sempre e comunque al processo di scelta democratica da parte dei cittadini. Che devono pretendere dalle istituzioni una scrittura chiara, precisa, attenta. In poche parole, onesta. L’oscurità della scrittura è profondamente antidemocratica, chiosa Gianrico Carofiglio in Con parole precise. Breviario di scrittura civile (Laterza, 2015).
Insomma, lo scrive nero su bianco Vittorio Coletti, il materiale è linguistico, ma la posta in gioco è culturale, sociale e politica.
Intanto, la Treccani in questi giorni ha lanciato una nuova campagna sui media contro l’appiattimento e l’impoverimento linguistico, il cui claim è Senza parole? La lingua italiana ne comprende oltre 250 mila, usiamole. Dunque, una volta tanto, le parole per dirlo ci sono. Basta solo usarle.