Svetlana Alexievich e le voci degli invisibili
Era già in odore di Nobel da qualche tempo. E Nobel fu. L’Accademia delle Scienze di Stoccolma l’ha premiata per la sua “scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio del nostro tempo”. Svetlana Alexievich è la quattordicesima donna a vincere il massimo riconoscimento alla letteratura mondiale, in compagnia di altre scrittrici di ‘frontiera’, come Alice Munro, Doris Lessing, Toni Morrison.
Per metà bielorussa, per l’altra ucraina, 67 anni, di cui oltre una decina trascorsi all’estero, ha descritto la Russia post-sovietica, il passaggio drammatico ed epocale del gigante comunista a un Paese in profonda recessione che ha perso la propria identità, e che stenta a ritrovarla, attraverso Chernobyl, la guerra in Afghanistan, il conflitto ceceno, realizzando centinaia di interviste, raccogliendo le voci di donne, uomini, bambini, contadini, operai, studenti, professionisti.
Raccontando fatti e più spesso stati d’animo, sentimenti, emozioni, reazioni.
Io non chiedo alle persone di socialismo, chiedo l’amore, la gelosia, l’infanzia, la vecchiaia,
Per Svetlana è il
Coro nella tragedia greca: è il rumore della vita.
Voci, frammenti di vita, documenti, testimonianze, francobolli di quotidianità dai quali risalire per arrivare alla essenza delle cose.
Narrazione collettiva di una catastrofe annunciata, migliaia di micro-storie di disperazione e sofferenza, di sopravvivenza e resilienza nella nuova Russia degli oligarchi miliardari, della corruzione imperante, del disagio sociale, del dispotismo che va a braccetto con un fascismo strisciante. La Russia imperiale che Putin vorrebbe riportare in vita.
Tessere millesimali di un puzzle difficile, a volte, da ricomporre, che ti consentono di inoltrarti sulla strada della memoria. E che come tutti i puzzle esige tempo, pazienza, cura per i dettagli. Così ogni libro richiede anni di gestazione tra centinaia di interviste, l’elaborazione della sofferenza e dell’orrore, la fatica del mettere in ordine tutti i pezzi e di dare senso compiuto, utilizzando quella filosofia della scrittura che ne è la cifra personale,
un nuovo modo di scrivere, di comporre e di riuscire a raccontare le opinioni e le storie delle persone come se appartenessero ad un’unica grande narrazione. (Intervista a Guido Caldiron su il Manifesto, 9 ottobre 2015).
I suoi libri, pluripremiati, mixano reportage, romanzo e racconto (d’altro canto lei si sente più scrittrice che giornalista) per parlare degli invisibili, dalle vittime della catastrofe nucleare in Preghiera per Cernobyl, ai reduci della guerra in Afghanistan, riportando a galla storie di emarginazione e alienazione, in Ragazzi di zinco, ai suicidi dopo il crollo dell’Urss in Incantati dalla morte, alle migliaia di donne che combatterono al fianco degli uomini nel Secondo conflitto, all’indomani del quale si ritrovarono rispedite a casa, in La guerra non ha un volto femminile, alla ‘piccola gente’, la gente comune, in Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo.
Libri che le hanno portato denunce e processi. Ma che non l’hanno mai fatto deflettere dal suo impegno di intellettuale, lo stesso che l’ha indotta a tornare in Bielorussia, nonostante la libertà di stampa sia costantemente minacciata, benchè giornalisti e scrittori siano quotidianamente intimiditi, aggrediti e uccisi. Allora, forse, la scelta dell’Accademia svedese può essere vista come un segnale. Che arriva chiaro e forte a nove anni esatti dalla morte di un’altra giornalista che ha pagato con la vita la sua voce libera, Anna Politkovskaja.