Storie di Donne e Vergini giurate nell’Albania del Terzo Millennio negli scatti di Paola Favoino
Dopo Roma, Bologna, New York e l’Odin Theatre di Holsstebro in Danimarca, è approdata nei giorni scorsi a Trebisacce nella sede dell’Associazione Culturale Rizoma, la mostra Aje Burrneshe! – Storie di Donne e Vergini Giurate, di Paola Favoino. Un viaggio per immagini che attraversa l’Albania e i confini con Kosovo e Montenegro, sulle orme delle Vergini giurate, le Burrneshe.
Biologicamente donna ma socialmente uomo: “Burrneshe” come la chiamano da queste parti. Vergine. Forte e rispettata.
Donne che tagliano i capelli, si liberano del loro nome e dei loro vestiti, fanno gli stessi lavori dei maschi, superando la soglia tra i due mondi.
Una trasformazione permessa dal Kanun, il codice di leggi consuetudinarie che per secoli ha regolato la vita privata e sociale del popolo albanese, radicandosi nel quotidiano e tramandandosi per centinaia di anni solo oralmente. Ancor oggi tenuto in vita e seguito nel Nord del Paese. Dove la donna non ha obblighi né diritti. Un’ombra senza voce, senza soggettività giuridica, senza diritto di voto né a possedere beni o ereditarne.
Qui la famiglia priva di figli maschi è come una casa senza tetto, indifesa e incapace di sopravvivere. Così, seguendo il Kanun, si chiede alle femmine di sacrificarsi, per seguire la strada della Burrneshe, per prendere il posto dell’uomo rinunciando alla propria natura, alla sessualità e alla maternità. Una donna che non è più donna ma neanche del tutto maschio. Fuori da ogni categoria data. Non c’è alcun intervento chirurgico, ma la trasformazione investe il corpo e l’identità femminile.
Una Burrneshe può ereditare, comprare, vendere, prendere decisioni per la propria famiglia, viaggiare, decidere a chi dare in moglie le proprie sorelle e portarle all’altare, frequentare luoghi pubblici, ma non ha diritto di voto.
La famiglia così ritrova il maschio. La donna invece esce dall’invisibilità alla quale l’ha relegata il suo genere e ottiene la sua libertà, poiché nessuno potrà più imporle un matrimonio con uno sconosciuto senza disonorare la famiglia né impedirle di vivere la propria sessualità in silenzio, rimanendo casta a vita.
Una scelta irreversibile ma non necessariamente sofferta. Di mezzo c’è l’onore della famiglia e il prestigio sociale di cui una Vergine giurata gode. Qualcuna tuttavia si guarda indietro, subentra il desiderio di essere come le altre donne, di potersi innamorare ed essere madre, ma spesso è troppo tardi e l’età e gli obblighi familiari e sociali hanno già tracciato un solco incolmabile tra il sé e l’Altro universamente riconosciuto e accettato. Da cui è difficile risalire per tornare indietro, a sé stesse, come rivela Laura Bispuri nel film Vergine giurata, presentato lo scorso anno alla Berlinale.
Paola Favoino, origini calabresi e lavoro nella Capitale, partendo dalla tesi di laurea, dal 2010 è stata più volte in Albania, dove ha incontrato le Burrneshe (ne rimangono poche decine) e molte donne in bilico tra modernità e tradizioni arcaiche, vittime di una cultura che li vuole sottomesse al volere di padri, mariti, fratelli (fino a qualche anno fa una donna su tre denunciava di aver subito violenze domestiche), raccontate attraverso i suoi scatti fotografici e oggi da un docufilm, selezionato al PERSO FILMFESTIVAL di Perugia e all’UmbriaWorlfest2015 di Foligno (PG), per il quale è stata avviata un raccolta fondi (per saperne di più clicca qui ).
Nei suoi scatti Paola Favoino ricostruisce con attenzione e sensibilità, sullo sfondo di una natura selvaggia e potente, storie personali e familiari, coglie complesse geometrie sociali, la solitudine di una vita nella desolazione di un giaciglio spartano, intercetta sguardi, posture, mani solide e callose, sorrisi di chi è avvezza a vivere in una terra di mezzo i cui confini sono liquidi e mobili, impossibilitata a tornare indietro così come a oltrepassare il cancello che ha davanti, perché chi si sottrae alla legge del padre continua a pagare con la vita la propria disubbidienza.