Mostri & Co.

In principio furono Ammut e Leviatan, poi arrivò il catalogo del bestiario medioevali, tra draghi, ippogrifi, cavalli alati, celebrati da miniatori, da poeti e scrittori, che di secolo in secolo si arricchì vertiginosamente nell’innesto continuo tra letteratura, arte e cinema.
Mostro deriva dal verbo latino monstro ossia mostrare, rendere visibile, indicare come esempio, e se la patente del mostro tradizionalmente è stata affibbiata alle più cupe espressioni dell’animo umano, in realtà, c’è da chiedersi se questo exemplum rimandi solo all’aspetto deteriore dell’umano o piuttosto all’intero spettro delle sue espressioni.
Costruito per opposizione alla figura positiva dell’eroe, il mostro, per definizione, catalizza il male in tutte le sue forme salvo non guardare alle diverse facce che nei secoli gli sono state attribuite, a iniziare dai miti primigeni, incanalati successivamente in fiabe e leggende, dove la patente del mostruoso è attribuita al sublime e al meraviglioso, ad esseri extra-vaganti capaci di muoversi tra mondi diversi, di attraversare i confini (tra vita e morte o tra generi sessuali come gli ermafroditi).
Appartengono a questa cerchia creature mitologiche come la Chimera, la Gorgone, i centauri e la loro diretta derivazione, il repertorio sterminato dei mirabilia medioevali, gnomi e folletti arrivati dal Nord, Frankenstein e King Kong, gli zombi e i personaggi dotati di superpoteri dei fumetti. Ma mostruosi sono anche Hal, il supercomputer di 2001 Odissea nello spazio e le illusioni indotte da Solaris, che negli anni della Guerra Fredda divennero la cartina di tornasole di ossessioni e inquietudini, del terrore di un nuovo conflitto, come ci ricorda Guillermo del Toro con The Shape of Water, pellicola pluripremiata agli Oscar 2018, gli androidi di Blade Runner, i cyborg, innesti tra uomo e macchine, di Cronenberg (Crash) e Donna Haraway, l’esemplare più riuscito, forse, del catalogo di mostri creato dalla penna visionaria di Stephen King, l’essere protagonista di It dal volto di un pagliaccio.
Esseri strabilianti come le Amazzoni o ET o deformi come il Calibano shakespeariano o i freaks del film culto di Tod Browning o, ancora, ibridi come la Creatura immortalata da Mary Shelley, esseri che si stagliano in un orizzonte Altro per la loro appartenenza a una dimensione sovrannaturale, preclusa al povero mortale, eppure essenziale a fare da contrappeso ad una realtà che appare più figlia del caos che dell’ordine. E però, il confine tra i due mondi, quello della natura e quello soprannaturale, è quanto mai permeabile e penetrabile: non c’è avventura, soprattutto se collettiva (quale può essere l’edificazione di una città), nell’antichità che non sia sottoposta all’oracolo, il labirinto non potrebbe essere compreso se accanto al mostruoso Minotauro non comparisse Arianna, né Apollo senza Pitone, la mostruosa creatura custode dell’oracolo di Delfi, o Perseo senza Medusa, fino a San Giorgio senza il drago.
Non si tratta di ridurre il tutto semplicisticamente al consueto meccanismo binario umano/bestiale, bene/male bello/brutto, ma di collocarlo in una visione prospettica come Borges, Kafka e Fredric Brown (che in Sentinella segue un soldato su un pianeta sperduto, in attesa in trincea dell’attacco di una specie aliena, salvo scoprire nel finale che l’alieno è lui) insegnano.
La versione manichea (che ritroviamo nel fantasy) del nostro essere nel mondo si rivela presto inappagante di fronte alla complessità dell’esistenza, di cui il mostruoso costituisce uno dei volti, portato alla luce sin dagli albori della specie umana dai grandi miti per essere catapultato dalla macchina mitologica che opera incessantemente nella reinvenzione e nella trasmissione dei miti, nei secoli sino ad oggi.
Nel Beowulf, poema epico anglosassoni, l’eroe Beowulf si sveste dell’armatura per affrontare il gigantesco e sanguinario Grendel come se volesse combattere da pari a pari mentre il mostro “malato di morte” scappa nel suo covo, come un comune mortale; Sigfrido nel Canto dei Nibelunghi dopo essersi bagnato nel sangue del drago diventa, come questi, invulnerabile (eccetto il tallone), ma perirà a seguito di un atto tipicamente umano, il tradimento.
Mostri ed eroi si rispecchiano l’uno nell’altro, perfetto duplicato del proprio sé, condividono ferocia e furore e un destino tragico, effetto della reciproca dismisura. Lo ricorda Alessandro Dal Lago nel suo libro, Eroi e mostri, non a caso citando la Genesi, che narra che un tempo, e anche dopo, sulla terra vivevano giganti ed eroi famosi, nati dall’unione tra i figli di Dio e le figlie dell’uomo.
Anche la creatura anfibia di The Shape of Water, che come ogni mostro acquatico che si rispetti abita le paludi amazzoniche, dunque ai confini del mondo civile, pencola tra atteggiamenti umani –l’amore, il sesso- e la sua natura soprannaturale che annette a sé peraltro un lato oscuro, bestiale.
In Frankenstein, la creatura assemblata dal dottor Frankenstein giustifica i suoi delitti in quanto dettati dalla solitudine e dall’odio nutrito dagli uomini (“Sono perfido perché sono infelice; non sono forse evitato e odiato da tutta l’umanità? “) compreso il suo creatore, che si allontana inorridito dalla sua stessa opera, attraversando per intero il paradosso rousseauiano sulla condizione umana, che vuole che l’uomo nasca buono e giusto ma sia presto corrotto dalla società. Nel suo capolavoro di cui ricorrono i duecento anni dalla pubblicazione, Mary Shelley affronta temi oggi più attuali che mai, di fronte alla notizia di questi giorni della clonazione di un primate, in un viaggio ante litteram tra etica, scienza, tecnologia.
Alla fine, lo dimostra Ruben Ostlund in The Square, il mostruoso è un modo per interrogarci sul nostro posto nella società e nel mondo.
Ti ho forse chiesto io, Creatore, di farmi uomo dall’argilla? Ti ho forse chiesto io di trarmi fuori dall’oscurità? (John Milton,Paradiso Perduto)
(Ph. Diane Arbus)
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La lingua in cui scrivo

Il 21 febbraio è stata la Giornata Mondiale della Lingua Madre. Occasione utile per ricordare che l’italiano, la lingua usata –e bistrattata- da sessanta milioni di nostri concittadini, è in realtà la quarta lingua più parlata al mondo, dopo inglese, spagnolo e cinese. Si esprimono in italiano l’arte e la letteratura, l’opera lirica, la storia ma anche il cibo, la moda, l’universo cattolico. Si esprimono in italiano, declinato nei diversi dialetti regionali, ancora, generazioni di emigranti, vecchi e nuovi.
A ricordarci il ruolo dell’ Italia sono gli stranieri che acquistano aziende e marchi italiani, perché, nonostante le dimensioni assunte dalla tentacolare industria della contraffazione, un abito o il caffè o i prodotti regionali targati made in Italy costituiscono ancora l’oggetto del desiderio di tanti e a qualsiasi latitudine. E, lo ricorda Annamaria Testa, il soft power, ovvero la capacità di influenzare gli altri per ottenere i risultati voluti, percorre da sempre strade apparentemente innocue come la diffusione della propria lingua e cultura e la riprova l’hanno data negli anni passati i paesi anglofoni e, più di recente, i cinesi, che stanno impiegando nel progetto risorse considerevoli.
Ad esprimersi nella lingua di Dante sono massicciamente gli albanesi (quasi il 60%), seguiti da Francia e Germania, dai paesi anglofoni, come USA e Australia, dal Sudamerica. Un dato che non sorprende visto che si tratta di aree ad alto tasso di emigrazione italiana. Quello che sorprende invece è che in alcuni paesi arabi, come Egitto e Tunisia, cresca il numero di studenti di italiano (dati ICON, Italian Culture On Net).
In casa nostra invece si moltiplicano i dibattiti, gli editoriali, le rubriche, i saggi, persino le collane che si oppongono alla quotidiana strage della grammatica, alla desolazione della sintassi, agli errori/orrori di linguaggio, che ci accompagnano fin dalla scuola, nella totale indifferenza della politica, a volte della famiglia e degli stessi insegnanti. C’è chi si erge contro anglicismi e neologismi e chi, come l’attore Fabrizio Gifuni, propone da tempo in teatro il suo corpo a corpo con la lingua italiana, portando in scena autori come Carlo Emilio Gadda, Pavese, Pasolini, Testori.
Ma parlare della Lingua Madre significa anche ricordare come ogni lingua sia uno straordinario impasto di culture e linguaggi diversi e come sempre di più sia destinata a fare i conti con l’Altro, di fronte al melting pot delle nostre società, a nuovi processi di emigrazione e ibridazione che svelano la retorica e i pericoli insiti in termini come radici e identità. Cosa significa essere italiano di fronte all’evidenza di una lingua che si è a lungo nutrita di idiomi e culture diverse, arrivate da Oriente, da Nord e da Sud, attraverso quel formidabile nastro trasportatore che è il Mediterraneo? Qui è il Mare di Mezzo tra le terre, come lo chiamavano gli arabi, a contare, porta d’accesso per i conquistatori e straordinario mediatore tra popoli e culture anche lontanissime.
Che la lingua sia un fatto complesso, fuori da stereotipi e manipolazioni, lo esprime plasticamente chi scrive nella lingua dell’Altro, chi traspone ogni volta quel processo di ibridazione continuo, con tutte le sue aporie e i suoi conflitti, sulla pagina bianca.
Chi scrive in una lingua diversa si muove sempre su un crinale, avvertendo l’eco della sfida, ma anche l’ambiguità, l’orizzonte ampio del trasformarsi e il senso di onnipotenza della propria multidimensionalità e, nello stesso tempo, la percezione dell’ombra, dell’indistinto, come afferma Jhumpa Lahiri.
Aspetti che si colgono in scrittori ‘occasionali’, spinti da un’esigenza biografica o di denuncia sociale, e ancor più in coloro che sull’ esperienza migratoria hanno costruito un percorso letterario. Un’ esperienza che unisce le biografie di Nabokov e Cioran (che scrissero nelle lingue dei paesi in cui vissero, gli Usa e la Francia) di Rushdie e Naipaul, del caraibico Walcott e dell’africano Coetze, di scrittrici note al grande pubblico come Jhumpa Lahiri e Chimamanda Ngozi Adichie.La prima è nata a Londra da genitori originari del Bengala ma si è trasferita giovanissima negli States, dove vive con la sua famiglia. Due anni fa ha preso casa in Italia per imparare l’italiano, un’esperienza trasposta nel libro In altre parole, scritto nella nostra lingua, occasione per ripensare il suo rapporto con la scrittura.
Lingua e biografia personale in Lahiri si intersecano, si intrecciano in un viluppo sfaccettato e complesso.
La figura del doppio –nel percorso esistenziale come in quello artistico- segna pesantemente la scrittura di Lahiri, che affida alla lingua dell’Altro il compito di traghettarla verso nuovi orizzonti, di aiutarla ad affrontare il cambiamento.
Anche in Adichie troviamo un analogo intersecarsi tra linguaggio e biografia personale. Nei suoi romanzi racconta il suo pencolare tra due paesi, quello di nascita, la Nigeria, e quello di adozione, gli Usa, di cui rivela le profonde contraddizioni, i rapporti tra i generi, il prezzo alto e doloroso pagato per l’integrazione (la protagonista di Americanah all’arrivo negli States rinuncia a se stessa cercando di assumere un accento americano, un’immagine occidentale di donna, capelli lisci compresi, fino ad accettare il mondo politically correct dell’uomo con cui convive), l’ipocrisia di una storia raccontata da altri (“Come era facile mentire agli stranieri, creare con loro le versioni delle nostre vite che immaginavamo “).
Comune a queste come ad altre scrittrici –mi soffermo soprattutto sulle donne che scrivono, nelle quali la prospettiva è duplice, sia di genere che culturale- è la consapevolezza di essere soggetti nomadi, termine coniato da Rosi Braidotti in un fortunato testo del 1994, il cui statuto è dettato non dal viaggiare tra paesi, identità o ruoli diversi, tra identità costruite e ancora da costruire in una nuova terra, pagando lo scotto dell’ omologazione, quanto dalla condizione di simultanea appartenenza e non appartenenza, che le consente di “resistere alla tentazione di fissarsi in un’unica concezione dell’identità univoca e sovrana”, e di “guardare con sano scetticismo alle identità fissate una volta per tutte e alle lingue madri”.
Nomade è chi si muove tra le frontiere di là dalla destinazione da raggiungere, chi vive nell’ intermezzo.
Nomade è chi sceglie come luogo in cui vivere quello in cui attacca il cappello, tanto per citare Bruce Chatwin, chi sa rinunciare a trappole concettuali e falsi dogmi, che sa mettere in discussioni categorie statiche -come identità o lingua materna- per accogliere la sfida dell’Altro, per aprire lo sguardo a intersezioni e meticciati.
C’è chi (in particolare, Sabelli, Scritture eccentriche. Identità transnazionali nella letteratura italiana; Botta, Farnetti, Rimondi, Le eccentriche. Scrittrici del ‘90) le ha definite scritture eccentriche, la cui radice, ἐκ «fuori da» e κέντρον <<centro», rimanda a una posizione liminale, periferica, a uno sguardo trasversale sulle cose che implica la capacità di entrare nella loro multi- dimensionalità e complessità, il sottrarsi al pensiero unico e omologante per trovare nelle articolazioni dell’esistenza il proprio approdo e punto di partenza continuo.
Esigenza comune a queste scrittrici è quella di far sentire la propria voce, di nominare il mondo con le proprie parole, di raccontare la storia dal proprio punto di vista. Voglio essere io a dire come mi chiamo, afferma Geneviève Makaping. Un desiderio che sfida l’ordine del discorso voluto dal pensiero occidentale per aprire le porte a chi situa differenze e ibridizzazioni fuori dalla logica binaria, per attraversarla tutta, svelando gli inganni del linguaggio, a chi attraversa continuamente con coraggio la frontiera della lingua, consapevole che essa è destinata a scostamenti costanti.
Scrivere in italiano diventa così, come scrive Lahiri un “piccolo ponte da costruire, poi da attraversare. ..(che) porta da un luogo a un altro”, un ponte che collega la terra (e la lingua) madre con il nuovo approdo, passato e futuro, in equilibrio magari sempre precario ma capace di smascherare il falso volto di un’identità unica e monolitica e pretesi ideali di purezza in nome dei quali rinascono oggi nazionalismi e sovranismi.
Un tema, quello di un’ identità in transito verso direzioni diverse, declinato anche da diverse artiste. Una per tutte, Shirin Neshat, iraniana di stanza da tempo a New York, le cui immagini (suoi sono gli scatti pubblicati in questo articolo) narrano senza possibilità di equivoci il transito continuo dalla storia personale a quella collettiva, tra corpo femminile e costrizioni ideologiche, una tradizione millenaria evocata nei testi in lingua farsi sovrapposti ai volti, mani, piedi, a rappresentare la complessità e le ambiguità dell’immagine femminile nel mondo dell’Islam, ma anche il ruolo e la responsabilità dell’artista nel suo viaggio attorno al mondo.
Vivere una sola vita
in una sola città,
in un solo paese,
in un solo universo,
vivere in un solo mondo
è prigione.
….
Avere un solo corpo,
un solo pensiero,
una sola conoscenza,
una sola essenza,
avere un solo essere
è prigione.
(Ndjoc Ngana, Nhindo Nero, Roma, Anterem, 1994)
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Inchiesta su un condannato a morte o dell’eterna barbarie

“Sono cinque settimane che abito con questo pensiero, sempre solo con lui, sempre agghiacciato dalla sua presenza, sempre curvo sotto il suo peso! “. Una sedia, un tavolo sommerso da fogli bianchi, che via via si spargono sulle tavole del palcoscenico, un giovane uomo che racconta al pubblico la sua odissea dietro le sbarre, in attesa del verdetto definitivo, condanna a morte.
L’uomo racconta le settimane che trascorrono uguali a se stesse, una dopo l’altra, in attesa della grazia, il tempo che non passa mai, la solitudine di chi ancora spera, poi la disperazione, la rabbia, infine il senso di impotenza e la rassegnazione di chi comprende che non c’è altro da fare, che qualcun altro ha scritto la parola fine. Una quotidianità interrotta dalla visita di routine del prete, della guardia che aspetta i numeri che l’uomo gli darà da morto, della bambina che non riconosce più il padre e lo chiama signore. L’esito è scontato e il filo della narrazione si interrompe sul patibolo.
Condannato a morte. L’inchiesta, interpretato dal bravo Gianmarco Saurino, testo e regia di Davide Sacco, è lo spettacolo, realizzato con il patrocinio di Amnesty International, che ha debuttato pochi mesi fa e sta girando in questi giorni tra la Calabria (è stato presentato a Catanzaro) e la Puglia. Lo spettacolo è ispirato ad una delle opere più note di Victor Hugo, L’ultimo giorno di un condannato a morte, che ne fece una denuncia spietata contro la pena di morte, prendendo a prestito la storia di un uomo in attesa della pena capitale, un uomo come tanti (non ci è dato sapere come si chiama e perché sia in galera), un uomo senza volto, alla stessa strega di coloro che l’hanno preceduto e che lo seguiranno. Un perfetto meccanismo narrativo, che conduce il lettore nei meandri della mente umana e nei paradossi della pena capitale, tra crudeltà private e ipocrisie pubbliche.
Il grande scrittore e poeta francese si batté tutta la vita contro la pena di morte e la sua profonda crudeltà e inumanità, e in tarda età continuò a scriverne in un pamphlet intitolato proprio Contro la pena di morte, nel quale proclamava alla fine la sua fiducia che l’avrebbero eliminata.
E invece, quasi duecento anni dopo, la pena capitale, nonostante la Dichiarazione di Stoccolma del 1977 (il primo manifesto abolizionista internazionale) e la moratoria dell’ONU, continua ad essere attuata in diversi paesi, come la Cina, l’Iran, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, gli Stati Uniti, l’Iraq. Nel 2016 sono state oltre 1.200 (dati estrapolati dall’ultimo Rapporto Amnesty International) le condanne portate ufficialmente ad esecuzione.
In realtà, i numeri potrebbero essere molto al di sotto di quelli reali, visto che i Paesi in cui essa vige non amano pubblicizzare le esecuzioni, fino a coprirle, come fa la Cina, con il segreto di Stato.
Non è un segreto invece che la percentuale più elevata di condannati a morte interessi le fasce più deboli ed emarginate della popolazione e le minoranze etniche, un dato trasversale che ritroviamo negli States come in Arabia Saudita, dove ad essere colpiti sono soprattutto i lavoratori immigrati.
Trasversali sono pure le vaste limitazioni –per non dire cancellazioni vere e proprie- del diritto di difesa e ad un giusto processo, il che aumenta le probabilità che a morte vengano mandati innocenti o comunque persone di cui non è stata pienamente accertata la colpevolezza.
Amnesty denuncia inoltre come nonostante i divieti posti da trattati e convenzioni internazionali, in diversi paesi la pena capitale colpisca molti minori. La vera piaga, tuttavia, è l’uso strumentale che ne viene fatto a servizio della discriminazione di genere. Oggi sono centinaia le donne che attendono l’esecuzione a tutte le latitudini, secondo la denuncia dell’ONU. Donne come Zeinab Sekaanvand, la giovane iraniana accusata di aver ucciso il marito, dopo essere stata sottoposta a ripetute violenze, a tortura e a un processo non equo. In alcuni paesi, sono almeno tredici, le donne sono sottoposte a norme più restrittive, e non solo per i reati più gravi qual è l’omicidio, visto che si può essere condannate alla pena capitale anche se si è accusate di adulterio o di aver avuto rapporti pre-matrimoniali. In paesi come il Pakistan la pena di morte è stata cancellata dal sistema penale per adulterio o rapporti omosessuali, ma continua a essere applicata massicciamente in quello tribale, dove l’infedeltà è una questione di onore, una macchia che può essere cancellata solo dalla morte della peccatrice per mano di uno dei membri della famiglia.
Nella medesima condizione ci sono anche giornalisti come Shawkan, in carcere al Cairo da 4 anni in attesa di giudizio per avere ripreso lo sgombero di un sit-in, blogger come Raif Badawi, condannato in Arabia Saudita a mille frustrate e alla pena capitale per essersi espresso sul suo blog a favore della laicità dello stato, e ricercatori come Ahmadreza Djalali, in carcere a Teheran con l’accusa di spionaggio.
Uomini e donne spesso senza volto e senza voce, sottoposti a condizioni crudeli, se non inumane, sottratti al buco nero in cui piombano nel braccio della morte solo grazie all’impegno di attivisti, organizzazione internazionali e semplici cittadini che, di fronte ad evidenti ingiustizie, hanno deciso di non girarsi dall’altra parte. Persone comuni, come lo era Cora Slocomb, una intraprendente americana sposata a un nobile friulano, che, a fine ‘800, di fronte alla condanna alla sedia elettrica una giovane lucana emigrata negli States, Maria Barbella, accusata di avere ucciso l’uomo che si era preso gioco di lei, forse consapevole del pericolo che la donna potesse diventare il capro espiatorio del razzismo dilagante contro la comunità italiana, insieme al marito tornò oltre Oceano, mobilitò l’opinione pubblica e un pool di noti avvocati, che riuscirono a ottenere la revisione del processo e l’assoluzione di Maria.
Nell’antica Grecia la giustizia è rappresentata da Δίκη, Díkē, colei che veglia sulle opere degli uomini e indica loro la direzione. Non è uno sguardo diritto il suo, ma rivolto in più di una direzione, al passato e al futuro, al colpevole e alla vittima, e a tutti coloro che sono stati colpiti in qualche modo dal torto fatto. Il tema della pena di morte, della pena in generale impinge inevitabilmente in una domanda inevitabile sul suo significato oggi e su quello del fare giustizia. Tra l’interesse dello Stato a ripristinare la vita civile, a ricomporre le maglie dell’ordine violato, e quello dei colpevoli e delle vittime c’è tuttavia uno spazio, aperto ad esperienze come quella avvenuta in Sudafrica dove, dinanzi alla prospettiva di un bagno di sangue, l’istituzione della Commissione per la verità e la riconciliazione ha “dato modo alla gente di raccontare le proprie vicende strazianti… alle vittime di esprimere la propria disponibilità al perdono e ai criminali di dichiarare il proprio pentimento“, come scrive Desmond Tutu, segnando un cammino diverso. Lo stesso segnalato nell’ Orestea, lo ricorda Marco Bonazzi, in cui Eschilo affida a un processo collettivo e alla dea Atena il compito di porre fine al circuito infinito di violenze poste in atto da Agamennone prima, da Clitemnestra e Oreste poi. Come la Commissione sudafricana è Atena a ricordarci che la nostra esistenza è complessa, solcata da oscurità e ambiguità, irriducibile alla logica tipicamente binaria, e che evocare Díkē significa anche ricomprendere le ragioni di tutti “in un ordine più ampio”.
(In copertina l’opera della illustratrice Stefania Infante, realizzata per lo spettacolo di Davide Sacco. Le foto di Condannato a morte. L’inchiesta, rappresentato nei giorni scorsi all’interno del cartellone di Oscenica, al Teatro Comunale di Catanzaro, sono di A. Maggio)
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Ursula Le Guin, cercando l’orlo estremo delle cose

Dici fantascienza e pensi a Asimov, Dick o Bradbury. Ma all’inizio non ci fu un Isaac o un Philip o un Ray ma una Mary. A questa londinese vissuta a cavallo di due secoli, Mary Shelley, e alla sua creatura, Frankenstein, dobbiamo un contributo fondamentale alla fantascienza. In quel romanzo c’erano Rousseau e il mito (Prometeo), la visione di un mondo nuovo in cui avanzavano l’industria e le nuove scoperte scientifiche e la consapevolezza che l’uomo poteva varcare i confini della vita e della morte.
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Cinema: Ella & John, un on the road che è un inno alla vita

Un camper fila allegramente verso il sud degli States sulle note di Janis Joplin e David Crosby. A bordo due vispi ottantenni cui prestano viso e corpo due mostri sacri del cinema, Donald Sutherland e Hellen Mirren, protagonisti di Ella & John, la nuova pellicola di Paolo Virzì, nelle sale in questi giorni, dopo essere stato presentato a Venezia lo scorso anno.
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Cinema: la Napoli velata di Ozpetek figlia dell’ordine e del caos

Un velo impalpabile ricopre il corpo di un uomo abbandonato nell’abbraccio con la morte. E’ il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, uno dei gioielli della Cappella Sansevero, un capolavoro che anche Antonio Canova avrebbe voluto firmare. Il regista Ferzan Ozpetek ne fa il simbolo di una Napoli velata, segreta e sotterranea.
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Che Guevara, tu y todos

Il prossimo febbraio avrebbe festeggiato i suoi 90 anni se fosse vivo. E invece Ernesto Che Guevara è morto crivellato di colpi a neanche quarant’anni ed è entrato diritto nella leggenda. Hasta la victoria sempre, è scritto su un cartello durante la protesta di Occupy Wall Street. Il suo motto, le sue frasi, le sue poesie, il suo ritratto più famoso, scattato da Alberto Korda, oggi si trovano dappertutto, sui muri, su magliette e manifesti, targhe e tazze del caffè. La sua immagine è diventato un’icona pop come Marilyn Monroe e i barattoli Campbell di Warhol, senza tuttavia mai appassirsi, perché El Che è entrato nel mito, l’unico mito politico, forse, oggi capace di attraversare indenne il tempo e le generazioni.
Ogni grande impresa richiede passione e la rivoluzione richiede passione e audacia in grandi dosi, aveva scritto Ernesto Guevara Lynch a sua madre nel 1956, prima di imbarcarsi sulla nave Granma e di rifugiarsi sulle montagna della Sierra Maestra, a Cuba, dove sperimenta sul campo i principi della guerriglia e dove si scopre agitatore di masse. Nella geografia personale del Che non compare solo L’Avana, nella quale i rivoluzionari castristi entrarono un anno dopo, ma anche l’Argentina, dove era nato, e l’America Latina, che percorre da nord a sud prima con l’amico Alberto Granado, “scienziato errante” (un viaggio raccontato in Latinoamericana, cui si ispira il regista Walter Salles ne I diari della motocicletta), successivamente da solo, maturando l’idea di un continente meticcio, uno spazio senza confini e disseminato di contraddizioni, in cui è necessario combattere con le armi dittatura e ineguaglianze.
Si ferma in Guatemala e in Messico, dove conosce Raul e Fidel Castro. Un incontro fulminante, di cui Ernesto riconosce subito la rilevanza e le implicazioni per il suo futuro, di cui scrive alla madre.
Arrivano ancora i viaggi in Europa, Africa, Russia, Cina, Corea, Birmania, Malesia, Pakistan, Giappone. Dove esporta il verbo della rivoluzione e conosce i mille volti del capitale e dello stesso ‘ socialismo reale’.
A un certo punto Ernesto si ritira dalla vita pubblica, rinuncia alle cariche nel governo di Castro e fa perdere le sue tracce. “Altri Paesi del mondo hanno bisogno dei miei sforzi”, scrive. Così, tenta di esportare la rivoluzione cubana altrove, in Congo, in Bolivia, ma alla fine il teorico della guerriglia e della guerra delle masse, della rivoluzione internazionale, cade vittima della sua stessa visione.
Tuttavia resta ancora vivo e potente il mito di un uomo che ha sempre fatto seguire alle parole i fatti. Che ha riempito di senso le parole della rivoluzione (non solo quella cubana) promuovendo il confronto e la condivisione, per seminare ovunque i germi di una coscienza rivoluzionaria, guardando in faccia il presente e il futuro insieme.
Il Che non è solo l’uomo della rivoluzione anticastrista, il combattente di “Due, tre, mille Vietnam”, ma anche l’intellettuale marxista critico verso le derive del socialismo di Stato, il fautore di un uomo nuovo, liberato dall’ alienazione e dal dogma, l’economista eretico, il filosofo, il lettore onnivoro, che passa da Marx ed Engels a Gandhi, colui che sa ascoltare e vedere e che condensa le esperienze fatte in acute e a volte illuminanti riflessioni, annotate con metodo nei diari e nelle lettere, in discorsi pubblici e conferenze, nelle interviste. Per l’azione serve il pensiero. E, se occorre, anche ripensare e riflettere ancora per trovare un nuovo senso agli eventi.
Sono anni importanti, quelli. L’insurrezione serpeggia ovunque in Sud America, portata dai montoneros in Argentina, dai tupamaros uruguayani, dai sandinisti in Nicaragna. Peron è tornato in Argentina dall’esilio e Allende è diventato Presidenti in Cile con l’appoggio di comunisti e socialisti. Poi arriverà l’epoca delle dittature, di Videla e Pinochet e dei generali di turno, l’operazione Condor smantella gruppi e movimenti rivoluzionari e riporta l’ordine nel continente. E’ il crollo delle illusioni, scriverà Osvaldo Soriano,
Il ragazzo affascinante e carismatico che percorre strade e mulattiere dell’America del Sud evoca l’immagine del cavaliere errante, dell’ eroe antico che combatte e muore da valoroso Pochi giorni prima della morte (un periodo particolarmente drammatico, raccontato da Steven Soderbergh nel suo film, Che) il Comandante trascrive nel suo diario boliviano una parte della Litanie per nostro signore Don Chisciotte del poeta Rubén Darìo.
Re dei nobili cavalieri, signore dei tristi,
che dalla forza trai coraggio e di sogni ti vesti,
vinto dall’aureo elmo dell’illusione;
che nessuno ha potuto sconfiggere ancor,
per lo scudo al braccio, tutto fantasia,
e la lancia in resta, tutta cuore.
Nobile pellegrino dei pellegrini,
che santificasti tutti i sentieri
con l’augusto passo del tuo eroismo,
contro le certezze, contro le coscienze,
e contro le leggi e contro le scienze,
contro la menzogna, contro la verità… (…)
Tu, per cui poche furon le vittorie
antiche, e per cui le classiche glorie
sarebbero il minimo dovuto,
sopporta elogi, memorie, discorsi,
resisti a convegni, targhe, concorsi,
e, tenendoti stretto a Orfeo, lascia che cantino in coro.
Prega con noi, affamati di vita,
con l’anima in subbuglio, con la fede perduta,
pieni d’angoscia e orfani di sole,
per colpa di volgari spiriti di manica larga
che ridicolizzano l’essere della Mancha,
l’essere generoso e l’essere spagnolo!
(…) Prega generoso, misericordioso, orgoglioso;
prega casto, puro, celeste, coraggioso;
intercedi per noi, supplica,
poiché siamo ormai quasi senza linfa, senza germogli,
senz’anima, senza vita, senza luce, senza Chisciotte,
senza piedi e senz’ali, senza Sancho e senza Dio.
Da tante tristezze, da dolori tanti,
dai superuomini di Nietzsche, da canti
afoni, dalle ricette firmate da un dottore,
dalle epidemie, da orribili bestemmie,
dalle Accademie,
liberaci o signore!
Dai rozzi rimestatori
falsi paladini,
e spiriti fini e blandi e vili,
dalla feccia che sazia
la sua canagliocrazia
prendendosi gioco della gloria, la vita, l’onore,
dal pugnale di grazia,
liberaci o signore!
Prega per noi, signore dei tristi,
che dalla forza trai coraggio e di sogni ti vesti,
cinto dall’aureo elmo dell’illusione;
che nessuno ha potuto sconfiggere ancor,
per lo scudo al braccio, tutto fantasia,
e la lancia in resta, tutta cuore!
Ma la figura di Ernesto Guevara si alimenta anche di errori e contraddizioni, di incroci rimasti oscuri di cui molti si sono appropriati, spargendo spesso e volentieri fango e calunnie, spacciate per realtà. Quello di cui non ci si può appropriare sono invece le sue idee, messe sulla carta, nero su bianco, nella convinzione che solo la verità è rivoluzionaria e che libertà non è una bella poesia o una parola come tante, un vuoto a rendere, ma un termine denso di significato, per il quale lottare. E morire.
Un sognatore? Un romantico? Un illuso? Un fallito? Forse. Resta il fatto che in nome della verità, della libertà, della giustizia e dell’autodeterminazione dei popoli il Che è vissuto ed è morto. Che ha sfidato a viso aperto una visione del mondo in cui imperano diseguaglianze senza fine. E’ questo è sembrato a molti una ragione più che sufficiente per seguirne i passi e il motivo per il quale, come ricorda Osvaldo Soriano, “il Che conserverà sempre tutto il suo valore”. Anche in un tempo in cui il capitale sembra avere vinto su tutti i fronti, che può vantare opposizioni e contraddizioni epocali, egoismi e paure infinite.
A 50 anni dalla morte il guerrigliero, il mito, l’eroe e soprattutto l’uomo è ricordato in questi giorni alla Fabbrica del Vapore di Milano con una mostra intitolata Che Guevara Tú y Todos (il titolo è tratto dall’ultima lettera alla moglie) che, sullo sfondo delle musiche di Andrea Guerra, fa scorrere pagine dai diari, lettere, documenti, filmati, immagini (ne pubblico qualcuna in questo post), una selezione rigorosa dello straordinario archivio del Centro de Estudios Guevara, per ripercorrere la parabola esistenziale e politica del Che, la vita familiare e quella pubblica.
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Il Novecento visto dallo Stretto. A schema libero, il nuovo romanzo di Lou Palanca

Il Nobel per la Fisica nel 2017 è andato alla scoperta di piccole increspature nello spazio-tempo, flebili segnali sonori che potrebbero rivelarsi cruciali nella conoscenza delle origini dell’universo. Alle onde gravitazionali era arrivato Einstein con la sua teoria della relatività ma ci son voluti cento anni per ottenere la prima evidenza scientifica. Ecco, le rughe del cosmo, non so perché, le vedo come una metafora della storia dell’umanità, uno sconfinato oceano in cui ogni evento, piccolo o grande che sia, emerge alla luce e subito dopo torna ad abissarsi. Un moto instancabile e implacabile in cui alla fine nulla si perde e tutto contribuisce al risultato finale.
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Asia Argento, Weinstein, la forza del pregiudizio e il potere della parola

Pregiudizio. Dal latino prae-iudicium, ossia giudicare anticipatamente, prima di conoscere fatti e persone, sulla base di idee personali che condizionano la valutazione e inducono in errore. Jane Austen ha dedicato al pregiudizio uno dei suoi romanzi più famosi seguendo con il genio che le è universalmente riconosciuto gli inevitabili effetti che preconcetti dettati da convinzioni inveterate, antipatie e posizioni personali possono portare. Effetti dannosi, pregiudizi, appunto, che, guarda caso, rimandano al secondo significato di questo vocabolo, che con un sorprendente movimento circolare si connette al primo.
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A Ciambra di Jonas Carpignano, il bildungsroman di un giovane rom. La recensione

Un film bello e commovente, lo ha definito Martin Scorsese. Ma anche un film duro e poetico, che gioca con gli stereotipi più inveterati. A Ciambra è il secondo appuntamento con la regia di Jonas Carpignano, giovane italo-americano che ha scelto di vivere tra gli States e Gioia Tauro. E’ qui, in Calabria, che nasce il suo primo film, Mediterraneo. Ed è qui, durante le riprese del suo film d’esordio, che gli viene rubata l’auto e che conosce Pio e la comunità rom della Ciambra.