Norman Douglas, viaggio in Calabria, i paesaggi interiori e l’incoercibile potenza del reale
I luoghi si assimilano sempre più l’uno all’altro. Cambia lo skyline delle città, ma negozi e centri commerciali, l’intreccio tentacolare di strade e tangenziali, neon e cartelloni pubblicitari sono identici. La globalizzazione livella il nostro gusto e il modo di stare al mondo, confusi in anonimi non luoghi dove spazio e tempo sono ridotti al loro grado zero.
Restituire il loro volto ai luoghi significa recuperarne l’identità e l’anima profonda, stratificazione di ere, storia, memorie che si dipanano concentricamente attorno a un nucleo germinativo. E la narrazione diventa strumento privilegiato per far riaffiorare gli intrecci di storie che nel tempo hanno sedimentato passioni, amori ed emozioni, fino a individuare la linea rossa unificatrice di un territorio o di un tessuto urbano.
Un aspetto che qualche secoli fà i colti e appassionati viaggiatori che percorrevano l’Italia in quel che veniva definito comunemente Grand Tour, iviaggio obbligato verso la scaturigine dell’antichità, avevano perfettamente colto. Restituendo un’immagine della Penisola che, pur provenendo da uno straniero, non è meno autentico ed efficace dello sguardo ‘interno’, riuscendo a volte anche a ricomporre i pezzi di un puzzle da sempre disseminati in mille rivoli.
Lo fanno attraverso le mille storie in cui si imbattono viaggiando nelle città come nei luoghi più sperduti, con la capacità di perdersi in una natura a volte aspra e selvaggia a volte dolce e ammaliante, nel labirinto dei centri urbani o tra scorci che passano inosservati a chi alla bellezza è abituato da sempre, ma non a chi vive tra le brughiere e i paesaggi del Nord Europa.
Questa Calabria è una terra di molteplici ricordi e interessi. Una terra di grandi uomini. Nel 1737 l’erudito Aceti riuscì a citare più di duemila celebrità calabresi: atleti, generali, musicisti, centenari, inventori, martiri, dieci pontefici, dieci re, una sessantina di donne in vista. Una terra di pensatori. …E chi racconterà dettagliatamente le sue naturali attrattive?
A raccontare nei primi anni del ‘900 la Calabria, la sua gente, le sue storie, i suoi mille volti è Norman Douglas, singolare impasto tra sangue scozzese e tedesco, una passione per i viaggi e per l’Italia, in particolare il Sud del Bel Paese, dove visse per lunghi anni. E raccontò in quaderni di viaggio e biografie che divennero veri e propri long seller, come Old Calabria. Viaggio tra Basilicata e soprattutto Calabria, percorsa da nord a sud attraverso borghi grandi e piccoli, città, e una natura spesso selvaggia ma già intaccata ai primi del ‘900 dalla mano dell’uomo.
Dalla foresta di Policoro Douglas scende a Rossano, con le sue valli ombrose e “i mostruosi blocchi di pietra rosso cupo” dal fascino particolare, che “ricorda una valle d’Inferno” ma anche i fasti di Bisanzio che offrì occasione di rinascita per l’arte e la cultura, passa per Castrovillari (di cui lamenta la “inspiegabile distanza dalla ferrovia” ) con la sua torre chiamata infame “per un episodio che rivaleggia con gli orrori del Black Hole di Calcutta”, un gruppo nutrito di briganti che vi venne rinchiuso e vi morì di fame e dei miasmi dei cadaveri il cui “fetore si sparse intorno per lungo tempo”, per approdare a Sibari, l’antica Thurii, dove si ritirò e morì Erodoto.
Fa tappa nei paesi arbereshe e ad Acri (l’antica Acherontia), supera l’estuario del Trionto (Treis) dove i crotoniati guidati da Milo sconfissero i sibaritidi, si ferma a San Giovanni in Fiore, dalle donne bellissime, dagli occhi neri o blu genziana cupo e il portamento aggraziato ma dalla sporcizia accumulata di una città orientale, arriva nei paesi dell’area Grecanica “uno degli ultimi rifugi del bizantinismo”, si ferma a Bova, “appollaiata sulla sua collina, le case annidate tra giganteschi blocchi di pietra che fanno pensare a una cittadella ciclopica di tempi remoti”, a Caulonia e nelle foreste della Locride, dove cresce quel pino di Aleppo da cui nei secoli si è ricavata la pece e dove domina la malaria, infallibile indicatore del paesaggio e degli abitanti di un territorio.
Si immerge nel mito, nell’ “Ellade luminosa dei tempi in cui il mondo era giovane”, sulle orme di città come Pandosia, sorta forse sulle rive dell’Acheronte, dove Alessandro il Molosso re d’Epiro andò incontro al suo destino.
E il percorso, rigorosamente a piedi, è segnato dalla descrizione dei posti, da notazioni storiche e antropologiche, da digressioni socio e psicologiche, nei quali il rigore della logica (alcune riflessioni sul nostro sistema penale, sono attualissime) si sposa a volte con lo stereotipo (il prototipo del calabrese è verde d’invidia o rosso dalla rabbia vs. il proverbiale self control anglosassone), mentre ovunque si sposta lo sguardo stupito sulla grandiosità dei paesaggi, il rollio vorticoso delle acque tra i maestosi canyon e i fiumi luccicanti…
Il nostro tuttavia non cade mai nello scontato, dimostrando anzi una non comune abilità di storyteller. Così i saraceni, che inflissero a lungo terrore e morte sulle coste meridionali, sono raccontati attraverso il lavorio dei santi.
Ogni divino protettore combatteva per la propria città o il proprio paese e talvolta vediamo il bellissimo spettacolo di due patroni di luoghi diversi che uniscono le loro forze per scongiurare un attacco dei pirati su qualche zona minacciata, impiegando violente grandinate, tempeste, apparizioni e altre risorse celesti. Compare un tipo di Madonna guerriera, come S. Maria della Libera e S. Maria di Costantinopoli, che si distingue per il marziale coraggio mostrato di fronte al nemico.
E sempre ai santi meridionali Douglas dedica un intero capitolo, inoltrandosi all’interno di un pantheon in continuo movimento tra figure vecchie e nuove, segnato dalle metamorfosi delle antiche divinità in madri divine e santi locali, retto con mano ferma dal primato della Madonna, vertice di un triangolo che ha il Padre e il Figlio agli angoli e Sant’ Anna sullo sfondo, protagonisti del modello di famiglia imperante, nella quale né il Creatore né lo Spirito Santo trovano posto poiché “troppo intangibili, troppo remoti dall’uomo”. La Madre cristiana non è tuttavia assimilabile alla Mater matuta mediterranea, ma una figura dalle radici saldamente infisse nel suolo in cui abita, specializzata geograficamente e tematicamente.
Le preghiere di un abitante del villaggio A avrebbero scarse probabilità di essere ascoltate dalla Madonna del villaggio B; se avete l’emicrania, non serve che vi rivolgiate alla Madonna delle Galline, che veglia sui disturbi femminili; vi trovereste in un bel guaio, se contaste sull’aiuto finanziario della Madonna del villaggio C, specialista in meteorologia.
Siamo nel sud. Come dimostrano i…gatti, straordinariamente somiglianti agli antichi avi della Nubia, “rapaci, sparuti e scaltri” quanto lisci e pigri sono i cugini inglesi. Altro segnale inequivocabile: la scomparsa dal vocabolario della parola grazie. Ingratitudine? No. Scortesia? Nemmeno. Piuttosto l’appartenenza a quell’ideale greco di cortesia che trova in Achille il suo prototipo, che vede nelle cose ricevute un segnale della dea bendata e nel donatore il suo strumento.
Non che non siano generosi, questi calabresi. Ma solo verso i familiari mentre fuori da quest’ambito l’unica molla a dettare i rapporti è l’interesse. E la capacità di atterrire il prossimo, (cui) è proporzionato il rispetto, cifra comune a un paese “dai denti e dagli artigli aguzzi” nelle cui città “si avverte un sentore di tigre”.
Anche lo scrittore inglese, al pari degli altri membri di quella sontuosa corte di viaggiatori, la più numerosa e libera accademia itinerante che la civiltà occidentale abbia mai conosciuto, come la definisce Cesare De Seta, che dal Rinascimento in avanti percorsero da Nord a Sud l’Europa, modula le tonalità espressive, passando dall’ entusiasmo alla severità e persino al disprezzo.
Si definiscono calabresi: Noi siamo calabresi! Dichiarano con orgoglio, a significare che sono al di là di ogni sospetto di imbroglio o di scorrettezza. In realtà sono una razza molto mista, con una forte inclinazione all’inganno …
Più oltre riconosce tuttavia che
Il vostro calabrese è stranamente sprezzante di agi e comodità; è un personaggio di poche ma acconce parole, leale, indifferente ai dolori e alle sofferenze e, quando abbia animo religioso, tendente di preferenza verso le forme più aspre e dure della fede. Nella sua concezione della vita si coglie sempre un senso di distacco dalle cose mondane; avvicinando uomini simili, si intuisce che la loro disposizione al bene non nasce da un istinto, ma da un’oscura consapevolezza di una Necessità preordinata. I greci e altri apporti gli hanno dato una certa versatilità e un’espressione più sorridente, ma alla base rimane sempre quell’antico homo ibericus di austera signorilità.
E che dire del ruolo della donna nella società, che cambia volto solo percorrendo poche decine di chilometri dalle aree interne alla costa, nelle prime ritenute uguali al maschio per intelligenza e considerazione (“costituiscono i frutti di una selezione femminile”) quanto tenute in scarsa stima li dove “poté penetrare il beffardo spirito ionico” e registrarsi la “glorificazione del maschio”.
Il nostro non lesina critiche anche alla diseducazione ecclesiastica, faccia della medesima medaglia di quel cattivo governo patito dagli abitanti del sud, che
sconvolge il fragile tessuto della civiltà e ne smussa i contorni delicati. Solo gli elementi più rozzi di un popolo riescono a sopportare un perenne malgoverno; solo una natura servile e mendace sopravviverà alla sua azione logorante.
Ma da questo angolo di Magna Grecia, in cui tutto –persone, paesaggi, rocce- è essenziale, semplice e luminosa testimonianza della realtà, arriva un messaggio all’
uomo saggio, questo perfetto selvaggio, (che) sarà l’ultimo a sottrarsi all’influenza di una simile radiosa realtà, anzi … studierà il modo di stabilire un rapporto più durevole e intimo. …Da queste brune rocce che punteggiano il quieto Ionio, da questa benefica solitudine, può trarre, e portare con sé nel movimentato fragore delle città, i principi di una sapienza nitida e autentica e assolutamente terrena…
Il filosofo tedesco Walter Benjamin sosteneva che i libri di viaggio scritti da uno straniero sfocino nell’esotico mentre quelli scritti dagli autoctoni siano tendenzialmente autobiografici. Una rappresentazione che difficilmente può essere applicata a questo viaggiatore compulsivo, curioso impenitente, innamorato follemente della vita e dell’Italia, ricercatore spasmodico del senso ultimo delle cose, che continua ancora a rivolgersi, un secolo dopo, a noi che sembriamo avere smarrito con la memoria del passato il senso autentico dell’incontro umano, dell’abitare il mondo qui e ora, delle reticolari geografie dell’anima.