Monika Bulaj: Sacred Crossing, esplorando i confini del sacro
Ci sono spazi che appartengono al divino. Dove il divino si esprime nei canti, nei piccoli gesti quotidiani, negli sguardi, nei movimenti del corpo. Uno spazio sottratto ai predicatori di turno, alla catena secolare di violenza e vendetta, al fanatismo armato di parole e proiettili, al pregiudizio, al razzismo, alla paura, a una politica priva di visione, accampata sugli interessi di bottega.
Uno spazio di confine che trascende i confini, che rivela il nostro comune senso di appartenenza a questo universo. Uno spazio che si
Uno spazio sacro –che non necessariamente corrisponde a uno fisico- in cui tutti possono ritrovarsi al di là delle appartenenze, delle definizioni e dei distinguo. Un luogo che è “solido e coerente” insieme, quanto fragile e fumoso è il richiamo alla guerra di religione e allo scontro di civiltà.
Monika Bulaj, polacca di nascita e triestina d’adozione, reporter, fotografa, documentarista acclamata e pluripremiata, testimone partecipe del nostro tempo, sa che i confini sono lì per essere superati ma vanno anche frequentati ed esplorati.
Ha deciso di raccontarlo con le parole e soprattutto le immagini, di volta in volta a colori e in bianco e nero, in decine di libri e di mostre, un numero infinito di pubblicazioni sulle maggiori testate internazionali e diversi progetti, l’ultimo dei quali è Sacred Crossing: dove gli dei si parlano. Bulaj usa le parole della scrittrice, la passione per la verità del reporter, la lente di ingrandimento dell’antropologo. E la curiosità della viaggiatrice, che l’ha portata nel corso degli anni da un capo all’altro della Terra, da Haiti all’Afghanistan da Cuba al Tibet per dare voce alle persone silenziose, ai mondi ignorati dai media e dai profeti del conflitto globale.
A dispetto del titolo tuttavia, spiega Bulaj nel presentare il progetto, da cui verrà tratto un libro edito da Contrasto, “non si tratta di un lavoro sul sacro, piuttosto sull’uomo, che rispecchia Dio e lo incarna”. Il viaggio attraverso il rapporto con il divino interseca miti e archetipi fondativi: in Cappadocia -e non solo-dove da sempre la comunità dà sostegno ai monaci che con le loro preghiere sostengono il mondo come in Marocco, dove le danze di alcune comunità riecheggiano le cerimonie rituali dell’antica Grecia, ripristinando un filo comune che percorre tutto il Mediterraneo, che gli egoismi e la miopia della politica cercano di tranciare.
Gesti arcaici che si ripetono da secoli, si riempiono di nuovi echi, si trasformano, si eclissano di fronte al pericolo per riemergere quando la tempesta è passata. Nulla di ciò scompare perché il
Monika Bulaj è una straordinaria attraversatrice di confini, è stato detto. Io penso che sia soprattutto una straordinaria esploratrice dei confini, dentro e fuori di noi, capace di raccoglierne immagini e voci, di portare a galla la memoria negata, le storie degli sconfitti, di segnalare ciò che ci unisce più che quello che ci separa, perché ogni confine in realtà è uno specchio in cui rifletterci.