La lingua in cui scrivo
Il 21 febbraio è stata la Giornata Mondiale della Lingua Madre. Occasione utile per ricordare che l’italiano, la lingua usata –e bistrattata- da sessanta milioni di nostri concittadini, è in realtà la quarta lingua più parlata al mondo, dopo inglese, spagnolo e cinese. Si esprimono in italiano l’arte e la letteratura, l’opera lirica, la storia ma anche il cibo, la moda, l’universo cattolico. Si esprimono in italiano, declinato nei diversi dialetti regionali, ancora, generazioni di emigranti, vecchi e nuovi.
A ricordarci il ruolo dell’ Italia sono gli stranieri che acquistano aziende e marchi italiani, perché, nonostante le dimensioni assunte dalla tentacolare industria della contraffazione, un abito o il caffè o i prodotti regionali targati made in Italy costituiscono ancora l’oggetto del desiderio di tanti e a qualsiasi latitudine. E, lo ricorda Annamaria Testa, il soft power, ovvero la capacità di influenzare gli altri per ottenere i risultati voluti, percorre da sempre strade apparentemente innocue come la diffusione della propria lingua e cultura e la riprova l’hanno data negli anni passati i paesi anglofoni e, più di recente, i cinesi, che stanno impiegando nel progetto risorse considerevoli.
Ad esprimersi nella lingua di Dante sono massicciamente gli albanesi (quasi il 60%), seguiti da Francia e Germania, dai paesi anglofoni, come USA e Australia, dal Sudamerica. Un dato che non sorprende visto che si tratta di aree ad alto tasso di emigrazione italiana. Quello che sorprende invece è che in alcuni paesi arabi, come Egitto e Tunisia, cresca il numero di studenti di italiano (dati ICON, Italian Culture On Net).
In casa nostra invece si moltiplicano i dibattiti, gli editoriali, le rubriche, i saggi, persino le collane che si oppongono alla quotidiana strage della grammatica, alla desolazione della sintassi, agli errori/orrori di linguaggio, che ci accompagnano fin dalla scuola, nella totale indifferenza della politica, a volte della famiglia e degli stessi insegnanti. C’è chi si erge contro anglicismi e neologismi e chi, come l’attore Fabrizio Gifuni, propone da tempo in teatro il suo corpo a corpo con la lingua italiana, portando in scena autori come Carlo Emilio Gadda, Pavese, Pasolini, Testori.
Ma parlare della Lingua Madre significa anche ricordare come ogni lingua sia uno straordinario impasto di culture e linguaggi diversi e come sempre di più sia destinata a fare i conti con l’Altro, di fronte al melting pot delle nostre società, a nuovi processi di emigrazione e ibridazione che svelano la retorica e i pericoli insiti in termini come radici e identità. Cosa significa essere italiano di fronte all’evidenza di una lingua che si è a lungo nutrita di idiomi e culture diverse, arrivate da Oriente, da Nord e da Sud, attraverso quel formidabile nastro trasportatore che è il Mediterraneo? Qui è il Mare di Mezzo tra le terre, come lo chiamavano gli arabi, a contare, porta d’accesso per i conquistatori e straordinario mediatore tra popoli e culture anche lontanissime.
Che la lingua sia un fatto complesso, fuori da stereotipi e manipolazioni, lo esprime plasticamente chi scrive nella lingua dell’Altro, chi traspone ogni volta quel processo di ibridazione continuo, con tutte le sue aporie e i suoi conflitti, sulla pagina bianca.
Chi scrive in una lingua diversa si muove sempre su un crinale, avvertendo l’eco della sfida, ma anche l’ambiguità, l’orizzonte ampio del trasformarsi e il senso di onnipotenza della propria multidimensionalità e, nello stesso tempo, la percezione dell’ombra, dell’indistinto, come afferma Jhumpa Lahiri.
Aspetti che si colgono in scrittori ‘occasionali’, spinti da un’esigenza biografica o di denuncia sociale, e ancor più in coloro che sull’ esperienza migratoria hanno costruito un percorso letterario. Un’ esperienza che unisce le biografie di Nabokov e Cioran (che scrissero nelle lingue dei paesi in cui vissero, gli Usa e la Francia) di Rushdie e Naipaul, del caraibico Walcott e dell’africano Coetze, di scrittrici note al grande pubblico come Jhumpa Lahiri e Chimamanda Ngozi Adichie.La prima è nata a Londra da genitori originari del Bengala ma si è trasferita giovanissima negli States, dove vive con la sua famiglia. Due anni fa ha preso casa in Italia per imparare l’italiano, un’esperienza trasposta nel libro In altre parole, scritto nella nostra lingua, occasione per ripensare il suo rapporto con la scrittura.
Lingua e biografia personale in Lahiri si intersecano, si intrecciano in un viluppo sfaccettato e complesso.
La figura del doppio –nel percorso esistenziale come in quello artistico- segna pesantemente la scrittura di Lahiri, che affida alla lingua dell’Altro il compito di traghettarla verso nuovi orizzonti, di aiutarla ad affrontare il cambiamento.
Anche in Adichie troviamo un analogo intersecarsi tra linguaggio e biografia personale. Nei suoi romanzi racconta il suo pencolare tra due paesi, quello di nascita, la Nigeria, e quello di adozione, gli Usa, di cui rivela le profonde contraddizioni, i rapporti tra i generi, il prezzo alto e doloroso pagato per l’integrazione (la protagonista di Americanah all’arrivo negli States rinuncia a se stessa cercando di assumere un accento americano, un’immagine occidentale di donna, capelli lisci compresi, fino ad accettare il mondo politically correct dell’uomo con cui convive), l’ipocrisia di una storia raccontata da altri (“Come era facile mentire agli stranieri, creare con loro le versioni delle nostre vite che immaginavamo “).
Comune a queste come ad altre scrittrici –mi soffermo soprattutto sulle donne che scrivono, nelle quali la prospettiva è duplice, sia di genere che culturale- è la consapevolezza di essere soggetti nomadi, termine coniato da Rosi Braidotti in un fortunato testo del 1994, il cui statuto è dettato non dal viaggiare tra paesi, identità o ruoli diversi, tra identità costruite e ancora da costruire in una nuova terra, pagando lo scotto dell’ omologazione, quanto dalla condizione di simultanea appartenenza e non appartenenza, che le consente di “resistere alla tentazione di fissarsi in un’unica concezione dell’identità univoca e sovrana”, e di “guardare con sano scetticismo alle identità fissate una volta per tutte e alle lingue madri”.
Nomade è chi si muove tra le frontiere di là dalla destinazione da raggiungere, chi vive nell’ intermezzo.
Nomade è chi sceglie come luogo in cui vivere quello in cui attacca il cappello, tanto per citare Bruce Chatwin, chi sa rinunciare a trappole concettuali e falsi dogmi, che sa mettere in discussioni categorie statiche -come identità o lingua materna- per accogliere la sfida dell’Altro, per aprire lo sguardo a intersezioni e meticciati.
C’è chi (in particolare, Sabelli, Scritture eccentriche. Identità transnazionali nella letteratura italiana; Botta, Farnetti, Rimondi, Le eccentriche. Scrittrici del ‘90) le ha definite scritture eccentriche, la cui radice, ἐκ «fuori da» e κέντρον <<centro», rimanda a una posizione liminale, periferica, a uno sguardo trasversale sulle cose che implica la capacità di entrare nella loro multi- dimensionalità e complessità, il sottrarsi al pensiero unico e omologante per trovare nelle articolazioni dell’esistenza il proprio approdo e punto di partenza continuo.
Esigenza comune a queste scrittrici è quella di far sentire la propria voce, di nominare il mondo con le proprie parole, di raccontare la storia dal proprio punto di vista. Voglio essere io a dire come mi chiamo, afferma Geneviève Makaping. Un desiderio che sfida l’ordine del discorso voluto dal pensiero occidentale per aprire le porte a chi situa differenze e ibridizzazioni fuori dalla logica binaria, per attraversarla tutta, svelando gli inganni del linguaggio, a chi attraversa continuamente con coraggio la frontiera della lingua, consapevole che essa è destinata a scostamenti costanti.
Scrivere in italiano diventa così, come scrive Lahiri un “piccolo ponte da costruire, poi da attraversare. ..(che) porta da un luogo a un altro”, un ponte che collega la terra (e la lingua) madre con il nuovo approdo, passato e futuro, in equilibrio magari sempre precario ma capace di smascherare il falso volto di un’identità unica e monolitica e pretesi ideali di purezza in nome dei quali rinascono oggi nazionalismi e sovranismi.
Un tema, quello di un’ identità in transito verso direzioni diverse, declinato anche da diverse artiste. Una per tutte, Shirin Neshat, iraniana di stanza da tempo a New York, le cui immagini (suoi sono gli scatti pubblicati in questo articolo) narrano senza possibilità di equivoci il transito continuo dalla storia personale a quella collettiva, tra corpo femminile e costrizioni ideologiche, una tradizione millenaria evocata nei testi in lingua farsi sovrapposti ai volti, mani, piedi, a rappresentare la complessità e le ambiguità dell’immagine femminile nel mondo dell’Islam, ma anche il ruolo e la responsabilità dell’artista nel suo viaggio attorno al mondo.
Vivere una sola vita
in una sola città,
in un solo paese,
in un solo universo,
vivere in un solo mondo
è prigione.
….
Avere un solo corpo,
un solo pensiero,
una sola conoscenza,
una sola essenza,
avere un solo essere
è prigione.
(Ndjoc Ngana, Nhindo Nero, Roma, Anterem, 1994)