Joan Didion e la grammatica del dolore
La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita.
Si apre così, con una riflessione che ne sintetizza tutto il percorso L’anno del pensiero magico di Joan Didion, fresco di ristampa da Il Saggiatore, che prosegue sulla strada della pubblicazione e ri-pubblicazione in italiano della vasta produzione di questa straordinaria scrittrice.
Joan Didion e John Gregoy Dunne. Una coppia dell’ upper class americana, entrambi scrittori famosi, un legame più che solido con Hollywood (irrobustito dalla presenza nel circolo familiare e degli amici di nomi che contano nel mondo del cinema) per il quale scrivono fortunate sceneggiature, e con l’intellighenzia dell’epoca, una relazione sentimentale, emotiva, professionale intensissima. Tutto questo scompare il penultimo giorno dell’anno, quando John muore improvvisamente mentre la loro figlia, Quintana, è in rianimazione in ospedale tra la vita e la morte.
E tuttavia L’anno del pensiero magico (che rimanda all’idea di poter influenzare la realtà secondo i propri desideri e a pratiche ancestrali in uso in diversi popoli ) non è, o meglio non è solo, una riflessione sulla vita e la morte, sulla necessità e l’impossibilità di accettare un evento tanto naturalmente riposto nel flusso dell’esistenza quanto temuto e angosciante ma anche sulla nostra irriducibile imperfezione, sulla esigenza di tenere in mano la vita, sempre pronta a guizzarne fuori, a controllarne tutti gli aspetti, ossessivamente e compulsivamente. Desiderio vano, soggetto ad essere ogni volta frustrato: Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita.
Così, semplice. E irreversibile.
Allora cerchi di ricomporre il puzzle evocando scampoli di ricordi, versi poetici, filosofia e psicanalisi, letture, estratti di cartelle cliniche, cercando di restituire una parvenza di unità a ciò che si è rotto e che non potrà più essere come prima, “frammenti con cui puntelli le tue rovine”.
Struggente testimonianza della fragilità umana e della imperscrutabilità dell’esistenza. Dolce e tragico, tenero e folle insieme, questo testo che sta a metà strada tra romanzo, memoir, saggio, affronta il tornado, si lascia trascinare nelle spire della tempesta, lascia che la catastrofe accada, che agisca in profondità tra ondate di tristezza, di autocommiserazione e il rimpianto di non aver conosciuto l’altro abbastanza, preparandosi alla fine ad abbandonarsi al cambiamento, a lasciare la landa desolata –quel posto che nessuno conosce finchè non ci arriva- in cui il lutto ti precipita.
Alla fine “…abbandonarli, lasciarli andare, tenerceli così come sono, morti…” per continuare a vivere.
L’hanno chiamato giornalismo narrativo. Un genere-non genere che annovera tra i suoi estimatori Senofonte, Truman Capote, Ryszard Kapuscinski, Svetlana Aleksievic, Gay Talese, e naturalmente Joan Didion. La scrittrice californiana ci vinse il National Book Award e la fama mondiale. E la riconoscenza imperitura di narratori di razza come Bret Easton Ellis che un giorno confessò alla sua musa ispiratrice di averle rubato tutto. Come scrive David Shields in quel testo imprescindibile e inconsueto qual è Fame di realtà, scrivere un romanzo significa, per molti lettori, saper raccontare bene una storia, ossia rispondere a un’idea preconfezionata della realtà, e tuttavia l’opera d’arte è “una forma viva” Ed è proprio in quella forma che si trova la realtà.