Inchiesta su un condannato a morte o dell’eterna barbarie
“Sono cinque settimane che abito con questo pensiero, sempre solo con lui, sempre agghiacciato dalla sua presenza, sempre curvo sotto il suo peso! “. Una sedia, un tavolo sommerso da fogli bianchi, che via via si spargono sulle tavole del palcoscenico, un giovane uomo che racconta al pubblico la sua odissea dietro le sbarre, in attesa del verdetto definitivo, condanna a morte.
L’uomo racconta le settimane che trascorrono uguali a se stesse, una dopo l’altra, in attesa della grazia, il tempo che non passa mai, la solitudine di chi ancora spera, poi la disperazione, la rabbia, infine il senso di impotenza e la rassegnazione di chi comprende che non c’è altro da fare, che qualcun altro ha scritto la parola fine. Una quotidianità interrotta dalla visita di routine del prete, della guardia che aspetta i numeri che l’uomo gli darà da morto, della bambina che non riconosce più il padre e lo chiama signore. L’esito è scontato e il filo della narrazione si interrompe sul patibolo.
Condannato a morte. L’inchiesta, interpretato dal bravo Gianmarco Saurino, testo e regia di Davide Sacco, è lo spettacolo, realizzato con il patrocinio di Amnesty International, che ha debuttato pochi mesi fa e sta girando in questi giorni tra la Calabria (è stato presentato a Catanzaro) e la Puglia. Lo spettacolo è ispirato ad una delle opere più note di Victor Hugo, L’ultimo giorno di un condannato a morte, che ne fece una denuncia spietata contro la pena di morte, prendendo a prestito la storia di un uomo in attesa della pena capitale, un uomo come tanti (non ci è dato sapere come si chiama e perché sia in galera), un uomo senza volto, alla stessa strega di coloro che l’hanno preceduto e che lo seguiranno. Un perfetto meccanismo narrativo, che conduce il lettore nei meandri della mente umana e nei paradossi della pena capitale, tra crudeltà private e ipocrisie pubbliche.
Il grande scrittore e poeta francese si batté tutta la vita contro la pena di morte e la sua profonda crudeltà e inumanità, e in tarda età continuò a scriverne in un pamphlet intitolato proprio Contro la pena di morte, nel quale proclamava alla fine la sua fiducia che l’avrebbero eliminata.
E invece, quasi duecento anni dopo, la pena capitale, nonostante la Dichiarazione di Stoccolma del 1977 (il primo manifesto abolizionista internazionale) e la moratoria dell’ONU, continua ad essere attuata in diversi paesi, come la Cina, l’Iran, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, gli Stati Uniti, l’Iraq. Nel 2016 sono state oltre 1.200 (dati estrapolati dall’ultimo Rapporto Amnesty International) le condanne portate ufficialmente ad esecuzione.
In realtà, i numeri potrebbero essere molto al di sotto di quelli reali, visto che i Paesi in cui essa vige non amano pubblicizzare le esecuzioni, fino a coprirle, come fa la Cina, con il segreto di Stato.
Non è un segreto invece che la percentuale più elevata di condannati a morte interessi le fasce più deboli ed emarginate della popolazione e le minoranze etniche, un dato trasversale che ritroviamo negli States come in Arabia Saudita, dove ad essere colpiti sono soprattutto i lavoratori immigrati.
Trasversali sono pure le vaste limitazioni –per non dire cancellazioni vere e proprie- del diritto di difesa e ad un giusto processo, il che aumenta le probabilità che a morte vengano mandati innocenti o comunque persone di cui non è stata pienamente accertata la colpevolezza.
Amnesty denuncia inoltre come nonostante i divieti posti da trattati e convenzioni internazionali, in diversi paesi la pena capitale colpisca molti minori. La vera piaga, tuttavia, è l’uso strumentale che ne viene fatto a servizio della discriminazione di genere. Oggi sono centinaia le donne che attendono l’esecuzione a tutte le latitudini, secondo la denuncia dell’ONU. Donne come Zeinab Sekaanvand, la giovane iraniana accusata di aver ucciso il marito, dopo essere stata sottoposta a ripetute violenze, a tortura e a un processo non equo. In alcuni paesi, sono almeno tredici, le donne sono sottoposte a norme più restrittive, e non solo per i reati più gravi qual è l’omicidio, visto che si può essere condannate alla pena capitale anche se si è accusate di adulterio o di aver avuto rapporti pre-matrimoniali. In paesi come il Pakistan la pena di morte è stata cancellata dal sistema penale per adulterio o rapporti omosessuali, ma continua a essere applicata massicciamente in quello tribale, dove l’infedeltà è una questione di onore, una macchia che può essere cancellata solo dalla morte della peccatrice per mano di uno dei membri della famiglia.
Nella medesima condizione ci sono anche giornalisti come Shawkan, in carcere al Cairo da 4 anni in attesa di giudizio per avere ripreso lo sgombero di un sit-in, blogger come Raif Badawi, condannato in Arabia Saudita a mille frustrate e alla pena capitale per essersi espresso sul suo blog a favore della laicità dello stato, e ricercatori come Ahmadreza Djalali, in carcere a Teheran con l’accusa di spionaggio.
Uomini e donne spesso senza volto e senza voce, sottoposti a condizioni crudeli, se non inumane, sottratti al buco nero in cui piombano nel braccio della morte solo grazie all’impegno di attivisti, organizzazione internazionali e semplici cittadini che, di fronte ad evidenti ingiustizie, hanno deciso di non girarsi dall’altra parte. Persone comuni, come lo era Cora Slocomb, una intraprendente americana sposata a un nobile friulano, che, a fine ‘800, di fronte alla condanna alla sedia elettrica una giovane lucana emigrata negli States, Maria Barbella, accusata di avere ucciso l’uomo che si era preso gioco di lei, forse consapevole del pericolo che la donna potesse diventare il capro espiatorio del razzismo dilagante contro la comunità italiana, insieme al marito tornò oltre Oceano, mobilitò l’opinione pubblica e un pool di noti avvocati, che riuscirono a ottenere la revisione del processo e l’assoluzione di Maria.
Nell’antica Grecia la giustizia è rappresentata da Δίκη, Díkē, colei che veglia sulle opere degli uomini e indica loro la direzione. Non è uno sguardo diritto il suo, ma rivolto in più di una direzione, al passato e al futuro, al colpevole e alla vittima, e a tutti coloro che sono stati colpiti in qualche modo dal torto fatto. Il tema della pena di morte, della pena in generale impinge inevitabilmente in una domanda inevitabile sul suo significato oggi e su quello del fare giustizia. Tra l’interesse dello Stato a ripristinare la vita civile, a ricomporre le maglie dell’ordine violato, e quello dei colpevoli e delle vittime c’è tuttavia uno spazio, aperto ad esperienze come quella avvenuta in Sudafrica dove, dinanzi alla prospettiva di un bagno di sangue, l’istituzione della Commissione per la verità e la riconciliazione ha “dato modo alla gente di raccontare le proprie vicende strazianti… alle vittime di esprimere la propria disponibilità al perdono e ai criminali di dichiarare il proprio pentimento“, come scrive Desmond Tutu, segnando un cammino diverso. Lo stesso segnalato nell’ Orestea, lo ricorda Marco Bonazzi, in cui Eschilo affida a un processo collettivo e alla dea Atena il compito di porre fine al circuito infinito di violenze poste in atto da Agamennone prima, da Clitemnestra e Oreste poi. Come la Commissione sudafricana è Atena a ricordarci che la nostra esistenza è complessa, solcata da oscurità e ambiguità, irriducibile alla logica tipicamente binaria, e che evocare Díkē significa anche ricomprendere le ragioni di tutti “in un ordine più ampio”.
(In copertina l’opera della illustratrice Stefania Infante, realizzata per lo spettacolo di Davide Sacco. Le foto di Condannato a morte. L’inchiesta, rappresentato nei giorni scorsi all’interno del cartellone di Oscenica, al Teatro Comunale di Catanzaro, sono di A. Maggio)