Gay Talese l’outsider
E’ il padre di quel New Journalism che ha fatto scuola negli ultimi decenni. Lui si considera ancora un outsider, oggi come sessant’anni fa, quando arrivava a scuola, impeccabile, in giacca e cravatta, lui, il figlio del sarto arrivato dalla Calabria, da un posto, Maida, conosciuto più dagli inglesi, visto che il loro esercito vi sconfisse i soldati di Napoleone in una delle battaglie che hanno fatto la storia insieme a Waterloo, che dai calabresi.
Gay Talese, come suo padre Joseph, taglia e cuce, anche se la materia di cui si serve non sono i tessuti ma le storie, mentre dalla madre impara l’arte di ascoltare con pazienza, senza interrompere, a interpretare pause e spostamenti improvvisi, silenzi e imbarazzi. Una eredità che gli resterà sempre cucita addosso. Cercare di andare oltre la superficie, ascoltare con attenzione, entrare nella vita delle persone intervistate, sapendo che hanno qualcosa da dire, una verità da condividere con il pubblico. Raccontare una città attraverso vite ‘a perdere’, i mille percorsi non sempre lineari di persone ignorate o dimenticate, come fa in New York è una città di cose che passano inosservate.
Talese non è un giornalista come tanti, non va alla ricerca della notizia, destinata fatalmente ad essere dimenticata nel tempo impiegato da un fulmine a squarciare le nubi, ma di storie. Le storie reali di gente reale. Scoprire il senso del mondo nel flusso della vita quotidiana, nelle vicende dei vincitori e, più spesso, dei perdenti, come fa con Frank Sinatra o con il campione dei pesi massimi Floyd Patterson, la cui parabola discendente traccia in The Loser, o ancora con il clan dei Bonanno, raccontato in Onora il padre. Un giornalismo, quello di Talese, che va al cuore delle cose e non alle loro rappresentazioni. Un giornalismo che cerca la verità, che agisce con onestà e integrità, non assopito alle richieste del potere o alla paura.
Concentrazioni editoriali, chiusure di testate e migrazioni sul web, data e citizen journalism, notizie confezionate da potenti software, blogger che raccontano al mondo cosa avviene dietro cortine (non più di ferro ma egualmente) impenetrabili per gli occidentali, e giornalisti che fanno da megafono a potenti lobby e politici di turno: oggi è complicato dire cosa sia il giornalismo. I confini sono sempre più porosi, le notizie viaggiano non sulle rotative ma sui social, che contribuiscono a dilatarne il ciclo. Un oceano di dati in cui tutto scorre ma che – pure- preserva e offre vita autonoma al ‘pezzo’ che, a differenza della carta, continua a circolare sul web, a essere letto, linkato, modificato, aggiornato… Un oceano in cui puoi ricavarti una nicchia, farti una redazione e creare una rete internazionale (come ha fatto Andy Carvin con reported.ly), proporre inchieste e progetti di lungo periodo e trovare risorse per sostenerli, costruirti una immagine autorevole e affidabile.
Ma anche rischiare di restare escluso se non entri nell’algoritmo di Facebook, il social network sta assumendo un ruolo fondamentale nella costruzione nella distribuzione delle notizie, un cane che può avvicinarsi con fare amichevole o per sbranarti, come scrive David Carr.
Certo, sul web c’è di tutto, ci sono i gattini, l’isola dei famosi e le bufale, e c’è il giornalismo di razza, che punta sul reportage, sulla collaborazione e il sostegno (anche economico) dei lettori, che vogliono essere sempre più protagonisti nello scoprire e raccontare storie che abbiano un senso. Ad essere in crisi è il giornalismo, non la domanda di informazione, che invece cresce, perché è interesse di tutti la conoscenza e la comprensione di una realtà sempre più liquida e sfuggente, pretendendo inchieste che scavino in profondità, condotte con trasparenza e sguardo rigoroso.
Quello di cui parlano Talese, Carr, Ciccone si chiama giornalismo di servizio, che proprio perchè al servizio della collettività può essere declinato in modi e a latitudini diverse da chiunque, dai cittadini che riprendono gli scontri tra le vie de Il Cairo ai blogger che raccontano il narcotraffico in Messico o la guerra in Siria (e ci lasciano le penne) al giornalismo di narrazione come quello che Talese ha fatto per anni. A fare la differenza tra gente come Talese, Assange, Snowden, lo sconosciuto che fotografa il corpo di Osama bin Laden e tutti gli altri, però, non è un patentino professionale ma il desiderio di cercare la verità, infaticabilmente, con coraggio, senza distogliere lo sguardo. Scegliendo da che parte stare.