Essere John Fante. La poetica di un outsider in un libro di Eduardo Margaretto
Non credo di conoscere l’invidia. C’ è qualcosa che le si avvicina, e la provo di fronte a quelle persone che sanno sempre dove vogliono andare. E ci vanno, a qualsiasi costo. Tipi, per intenderci, come John Fante. Non è ancora maggiorenne quando decide che la sua strada è tracciata, ed è fatta di storie e di parole. Rimane folgorato da Dostoevskij, poi incrocia Flaubert, Kurt Hamsun, Jack London, Hemingway, Fitzgerald, Steinbeck, e inizia a scrivere.
Se ne va da casa che non ha nemmeno vent’anni, si barcamena come può, facendo il lavapiatti o il commesso o vendendo frutta secca, patisce a lungo la fame, ma continua a pensare che vuole scrivere e che ce la farà.
Tra John e la carta ci sono le migliaia di chilometri che separano l’Abruzzo dagli Stati Uniti, dove la sua famiglia è emigrata, un’infanzia poverissima tra un padre muratore e attaccabrighe con il pallino dell’alcool e delle donne, Nick, e Mary, la madre religiosissima che cerca come può di mandare avanti la famiglia. Ma c’è anche una rabbia ancestrale, nutrita dalla ingombrante figura paterna, dal razzismo dei wasp, come si definivano i nipoti dei colonizzatori inglesi, e dalla vergogna verso i compaesani che hanno sputato sangue per costruire il Nuovo Mondo ma si sono arresi alla miseria e alla condizione di wop, che affollano la parte bassa della scala sociale nell’America dei primi decenni del secolo, confinando nelle Little Italy un pezzo della loro memoria.
Il diverso e la sua emarginazione sociale, il razzismo e il rancore degli esclusi dalla tavola imbandita dai wasp, costituiscono la materia prima che Fante utilizzerà d’ora in avanti nei racconti e nei romanzi, a iniziare da Ask to Dust, Chiedi alla polvere, che lo incorona come uno degli scrittori più influenti della sua generazione. Dove fa capolino quell’Arturo Bandini che di Fante è l’alter ego e, come scrisse il suo agente Elizabeth Nowell, “soggetto di studio e ragione di vita”.
John e Arturo sono una cosa sola, Bandini, è lo specchio in cui lo scrittore si riflette e si osserva, su cui riversa rancori e paure, soggetto e oggetto insieme di riflessione, perennemente in bilico sul crinale tra realtà e finzione. La scrittura di Fante non è mai autobiografica ma un moto centripeto che fa di sé stesso la materia incandescente dei suoi libri, una realtà che genera finzione che produce a sua volta realtà.
Nel suo primo romanzo, La strada per Los Angeles pubblicato postumo, lo scrittore italo-americano racconta la storia di un ragazzo (sè stesso) che lascia il Colorado per sfuggire ad un ambiente familiare e sociale claustrofobico e si rifugia in una Los Angeles devastata dalla Grande Depressione, in cui si aggirano i nuovi schiavi (italiani, messicani, filippini) alla ricerca di un angolo in cui rifugiarsi e sopravvivere. Ci vorranno anni perché Fante si riconcili con le sue origini, con tutto ciò che è italiano, con la religione, con gli odiati-amati wasp, sposando una di loro, con la stessa figura paterna, di cui replica i vizi, ma soprattutto con la condizione dello scrittore, vocazione e passione vorace ed esclusiva. E, nello stesso tempo, possibilità di riscatto alle sofferenze e alla solitudine, la rivincita di un povero dago e un passaporto per la Terra promessa, nella quale non esiste passato ma la rinascita a nuova vita, da cittadino americano.
Negli anni escono Aspetta primavera, Bandini e Chiedi alla polvere ed arriva il successo. La critica lo paragona a Dos Passos, Steinbeck, Hemingway, anche se Fante percorre una strada diversa da quella del romanzo sociale, marcata dal rifiuto della denuncia politica e dalla scelta di indagare piuttosto la disperazione e le nevrosi della società, pur condividendone temi e stile.
Il suo nome intanto comincia a prendere quota. La critica lo esalta, riviste ed editori se ne contendono i racconti, la radio lo accoglie come cronista, Hollywood lo chiama a scrivere soggetti e sceneggiature. Fante oltrepassa indenne i giorni del maccartismo e della caccia alle streghe e, sempre attento a promuoversi e a tirare su soldi, lavora per le grandi Major del cinema senza cessare di raccogliere idee per il prossimo libro.
La miseria è alle spalle, ma una moglie e quattro figli e un tenore di vita adeguato al nome che si è fatto esigono un sacrificio, che venga immolata quella porzione più intima e profonda di sé che è la scrittura. Fante ora scrive “per dovere –il dovere di guadagnare”. Lo odia, ma non c’è scampo. E con l’odio tornano a galla la frustrazione e gli attacchi di collera.
Tuttavia, a riemergere è anche anche la sorgente di ispirazione, grazie ancora una volta alla sua nuova maschera, Dominic Molise, protagonista di Un anno terribile, pubblicato postumo, con cui riaggancia il tema del sogno americano, incarnato da Dominic, formidabile lanciatore di baseball, insieme a quello del rapporto con l’ingombrante figura paterna, protagonista ne La confraternita dell’uva. Il giovane Arturo Bandini dallo sguardo cinico e sferzante è sostituito da Henry Molise, un uomo deluso dall’ipocrisia e dalla falsità del Nuovo mondo che sogna di tornare oltre Oceano, alle sue origini. Ancora una volta protagonisti, sotto rinnovate vesti, sono John e Nick, padre e figlio, la coppia attorno alla quale ruota l’intero universo fantiano, unica eccezione Joyce, la moglie, perno dell’altro capolavoro, Full of life.
Il rapporto tra generazioni, i conflitti e le incomprensioni tra padre e figli, il Dream of life vengono ripresi e rielaborati in Il mio cane Stupido, in Don Giovanni, una commedia teatrale, in Sogni di Bunker Hill, il libro che Fante, molto malato, detta alla moglie prima di morire. E mentre il sogno a lungo coltivato di portare i suoi romanzi sul grande schermo è destinato a fallire, mentre la salute lo abbandona, lasciandolo cieco e senza gambe, così come già aveva fatto Hollywood, le quotazioni dei suoi libri riprendono a crescere grazie, paradossalmente, a un altro emigrato, ubriacone e dalla sessualità compulsiva ma dalla penna fatata, che lo considera il suo Dio e gli dedica le sue opere. Charles Bukowski di Fante diverrà amico devoto, omaggiandolo continuamente in reading ed interviste, fino a diventare l’artefice della sua riscoperta e della sua trasformazione in uno scrittore di culto in tutto il mondo, al quale viene persino dedicata una giornata di commemorazione (l’8 aprile).
John Fante è questo, e molto altro. Forse per questo motivo non è facile ritrovare i fili della matassa di una personalità sfaccettata, complessa, carismatica, contraddittoria, sul piano umano oltre che artistico, come la sua. Dopo Stephen Cooper, il suo biografo ufficiale, Dan Fante e molti altri, ci prova ora lo spagnolo Eduardo Margaretto in Non chiamarmi bastardo, io sono John Fante, la bella biografia appena pubblicata da Rubbettino.
Margaretto si muove a suo agio tra biografia e fiction, alternando alla voce di Fante quella di Joyce, la moglie, del figlio Dan, anche lui scrittore, degli amici, del suo mentore, Henry L. Menken, i frammenti dai romanzi e dai racconti, le analisi dei critici, ricordi e interviste.
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Come Fante, Margaretto è scrittore e sceneggiatore. E, come Fante, è figlio di emigrati italiani, abituato a vivere la condizione di chi oltrepassa continuamente il confine tra storie, culture, lingue diverse, quelle delle origini e quelle della nuova terra in cui si è approdati. E’ questo, forse, il tratto comune e il terreno che ha alimentato la passione che per vent’anni ha portato lo scrittore spagnolo a percorrere in lungo e in largo l’universo Fante, come mi dice anche Maria Pina Iannuzzi, che ha tradotto la biografia di Margaretto.