Da Cambridge Analytica a Facebook, ovvero come i giganti del web stanno minando la nostra sfera privata e la democrazia
Ieri Mark Zuckerberg è comparso davanti alla Commissione del Senato americano. E’ apparso stanco, visibilmente provato. Niente di più lontano dal ragazzo dallo sguardo sorridente e sicuro, dalle maniere dirette e spicce di chi è abituato a vincere, di colui che ha lanciato l’idea del secolo, Facebook, una piazza in cui tutti, a qualsiasi latitudine, possono incontrarsi, discutere, scontrarsi, pubblicare foto e video personali e condividerli con altri 2 miliardi di utenti.
Mark vuole apparire ancora il ragazzo che ha affidato alla sua azienda il messaggio di <<idealismo e ottimismo>> ma nei fatti è il capo di un colosso che nel 2017 ha fatturato oltre 40 miliardi di dollari, che si muove con disinvoltura a Wall Street come nell’acquisizione di piattaforme, domini, sistemi operativi (una sessantina ad oggi), che formano una parte considerevole del suo core business, che in questo momento pare muoversi come un elefante nella cristalleria.
Davanti alla Commissione, il CEO del gigante californiano ha ammesso di aver compiuto degli errori, di non aver risposto immediatamente alle manovre di Cambridge Analytica, società di consulenza fondata da quello Steve Bannon che è stato artefice della campagna elettorale di Trump, accusata di essersi appropriata di 87 milioni di profili di utenti Fb e di averli venduti al comitato elettorale di Donald Trump. Ha ripetuto le proprie scuse per quanto avvenuto e confermato che la società ha dato il via a controlli rigorosi sui profili degli utenti. <<Diventeremo poliziotti del sistema>>, dice. E a riprova della trasparenza e della correttezza delle politiche aziendali ha aggiunto che gli utenti sono controllori di sé stessi e che possono gestire come meglio credono il proprio profilo, cancellando post e informazioni o disattivando le informazioni visibili a terzi.
Vero. Zuckerberg non dice tuttavia che ogni attività sul web viene tracciata, comprese la cancellazione delle foto o dei post pubblicati, non dice che l’uso gratuito di un giocattolo divertente (che soddisfa bisogni elementari come quelli identitari, di appartenenza, di ammirazione, come dimostrano diverse ricerche) qual è Facebook ha un costo enorme per noi utenti, che ogni volta che ci colleghiamo cediamo informazioni preziose sulla nostra vita, sui nostri gusti in fatto di scarpe piuttosto che di libri o di spettacoli, sulle nostre abitudini culturali e scelte politiche, dati questi che, grazie a potenti algoritmi, vengono raccolti, categorizzati e venduti (ecco il business) a Cambridge Analytica e altre compagnie. E’ chiaro che di fronte a tutto ciò, la possibilità di controllo del proprio account sembra più che altro una tanica d’acqua versata sul muro di fiamme che divora un bosco.
Nel corso delle cinque ore di audizione, costellata da diversi Non so o Non ricordo (il che non depone esattamente a suo favore), il CEO di Facebook, sotto il fuoco di fila delle domande dei senatori, ha risposto anche sul tema della introduzione di norme più efficaci e stringenti, dicendosi pronto ad applicarle, dichiarazione non proprio in linea con il comportamento renitente del social network ad estendere le norme del nuovo Regolamento europeo sulla protezione dei dati (GDPR) anche agli utenti americani, nonostante le richieste pressanti di diverse associazioni e gruppi di difesa dei consumatori.
Le domande dei senatori, e ancor meno le risposte di Zuckerberg, non hanno allontanato le ombre né placato i dubbi, se una prestigiosa testata come The Atlantic ha avvertito l’esigenza di raccogliere una vasta platea di domande, poste da docenti, amministratori ed esperti, che il Congresso dovrebbe porre al capo del gigante di Menlo Park con riguardo alle politiche di advertising, alle strategie di manipolazione psicologica degli utenti, alla capacità di penetrare all’interno della sfera privata, al suo ruolo e alla sua responsabilità sociale e, ultimo ma non ultimo, ad una nuova regolamentazione dell’uso degli algoritmi e del diritto degli utenti ad un’informazione chiara sui propri dati e sulla loro circolazione.
Alcuni anni fa, Stefano Rodotà aveva profeticamente anticipato come attorno al nesso tra privacy e presenza sul web si giochi una partita fondamentale per la salvaguardia delle nostre libertà individuali e collettive. Per quanto la privacy non esaurisce le libertà della persona, i legami tra i due sono sempre più stretti , spiegava il giurista, a capo dell’ufficio del Garante della privacy dal 1997 al 2005, citando lo stesso Zuckerberg e la sua affermazione che la privacy non esista più, per metterci in guardia dall’abbassare le difese contro le ingerenze costanti nella nostra sfera personale che minano l’ autonomia personale e la crescita democratica della società.
Un tempo si diceva Io sono quello che affermo, oggi Io sono quello che appaio su Facebook o su Google... E allora, se siamo espropriati dalla nostra identità, come non pensare che le nostre libertà non siano pesantemente poste sotto scacco? Che la circolazione e il monopolio dei nostri dati da parte di imprese, agenzie governative e da consulenti dal volto ambiguo non scalfiscano giorno dopo giorno i confini della democrazia?
La posta che si gioca oggi è alta, è quella del controllo pervasivo e globale, e c’è da chiedersi se di fronte ai giganti che dominano la rete e ad utenti che dimostrano una crescente tendenza all’assuefazione, abbassando la guardia sulla protezione dei propri dati, sia sufficiente l’attuale quadro giuridico o se sia necessario aggiornarlo con strumenti legislativi capaci di volta in volta di riportare ad equilibrio il sistema, che indichino quando e come valori fondamentali della persona possano essere sacrificati (oggi il confine è quello della “guerra globale” al terrorismo), quali limiti sono invalicabili (ad esempio, quello della salute e della libertà d’azione in casi, sempre più numerosi, di impianto di microchip sottopelle, che ci trasforma in persone perennemente connesse e ‘protette’ ), quali sono i tempi di conservazione dei dati, in quali casi possano essere ceduti legittimamente a terzi, la possibilità di gestirli in autonomia e di cancellarne le tracce quando non ci interessano più o risultino dannose. Temi, questi, affrontati dal Regolamento Ue, che entrerà in vigore dal 25 maggio.
La corsa ai like e ai followers o alle pagine che parlano di noi in rete ha acquistato ormai un retrogusto amaro. Così come la paura del nuovo terrore, in nome della quale accettiamo di essere scrutati e ascoltati da occhi e orecchi invasivi, che evocano la società dominata dal Grande Fratello descritta da Orwell in 1984, romanzo scritto nel 1948, quando era ancora vivo il ricordo del regime hitleriano. Oggi il rischio, nell’eterno presente in cui siamo immersi, è quello di non avere più memoria del passato e di dimenticare che le nostre democrazie sono un bene prezioso ma fragile, e purtroppo non eterno.
(Nelle immagini, Nature, le trame dell’esistenza di Zeroottouno, al Marca di Catanzaro)