Che Guevara, tu y todos
Il prossimo febbraio avrebbe festeggiato i suoi 90 anni se fosse vivo. E invece Ernesto Che Guevara è morto crivellato di colpi a neanche quarant’anni ed è entrato diritto nella leggenda. Hasta la victoria sempre, è scritto su un cartello durante la protesta di Occupy Wall Street. Il suo motto, le sue frasi, le sue poesie, il suo ritratto più famoso, scattato da Alberto Korda, oggi si trovano dappertutto, sui muri, su magliette e manifesti, targhe e tazze del caffè. La sua immagine è diventato un’icona pop come Marilyn Monroe e i barattoli Campbell di Warhol, senza tuttavia mai appassirsi, perché El Che è entrato nel mito, l’unico mito politico, forse, oggi capace di attraversare indenne il tempo e le generazioni.
Ogni grande impresa richiede passione e la rivoluzione richiede passione e audacia in grandi dosi, aveva scritto Ernesto Guevara Lynch a sua madre nel 1956, prima di imbarcarsi sulla nave Granma e di rifugiarsi sulle montagna della Sierra Maestra, a Cuba, dove sperimenta sul campo i principi della guerriglia e dove si scopre agitatore di masse. Nella geografia personale del Che non compare solo L’Avana, nella quale i rivoluzionari castristi entrarono un anno dopo, ma anche l’Argentina, dove era nato, e l’America Latina, che percorre da nord a sud prima con l’amico Alberto Granado, “scienziato errante” (un viaggio raccontato in Latinoamericana, cui si ispira il regista Walter Salles ne I diari della motocicletta), successivamente da solo, maturando l’idea di un continente meticcio, uno spazio senza confini e disseminato di contraddizioni, in cui è necessario combattere con le armi dittatura e ineguaglianze.
Si ferma in Guatemala e in Messico, dove conosce Raul e Fidel Castro. Un incontro fulminante, di cui Ernesto riconosce subito la rilevanza e le implicazioni per il suo futuro, di cui scrive alla madre.
Arrivano ancora i viaggi in Europa, Africa, Russia, Cina, Corea, Birmania, Malesia, Pakistan, Giappone. Dove esporta il verbo della rivoluzione e conosce i mille volti del capitale e dello stesso ‘ socialismo reale’.
A un certo punto Ernesto si ritira dalla vita pubblica, rinuncia alle cariche nel governo di Castro e fa perdere le sue tracce. “Altri Paesi del mondo hanno bisogno dei miei sforzi”, scrive. Così, tenta di esportare la rivoluzione cubana altrove, in Congo, in Bolivia, ma alla fine il teorico della guerriglia e della guerra delle masse, della rivoluzione internazionale, cade vittima della sua stessa visione.
Tuttavia resta ancora vivo e potente il mito di un uomo che ha sempre fatto seguire alle parole i fatti. Che ha riempito di senso le parole della rivoluzione (non solo quella cubana) promuovendo il confronto e la condivisione, per seminare ovunque i germi di una coscienza rivoluzionaria, guardando in faccia il presente e il futuro insieme.
Il Che non è solo l’uomo della rivoluzione anticastrista, il combattente di “Due, tre, mille Vietnam”, ma anche l’intellettuale marxista critico verso le derive del socialismo di Stato, il fautore di un uomo nuovo, liberato dall’ alienazione e dal dogma, l’economista eretico, il filosofo, il lettore onnivoro, che passa da Marx ed Engels a Gandhi, colui che sa ascoltare e vedere e che condensa le esperienze fatte in acute e a volte illuminanti riflessioni, annotate con metodo nei diari e nelle lettere, in discorsi pubblici e conferenze, nelle interviste. Per l’azione serve il pensiero. E, se occorre, anche ripensare e riflettere ancora per trovare un nuovo senso agli eventi.
Sono anni importanti, quelli. L’insurrezione serpeggia ovunque in Sud America, portata dai montoneros in Argentina, dai tupamaros uruguayani, dai sandinisti in Nicaragna. Peron è tornato in Argentina dall’esilio e Allende è diventato Presidenti in Cile con l’appoggio di comunisti e socialisti. Poi arriverà l’epoca delle dittature, di Videla e Pinochet e dei generali di turno, l’operazione Condor smantella gruppi e movimenti rivoluzionari e riporta l’ordine nel continente. E’ il crollo delle illusioni, scriverà Osvaldo Soriano,
Il ragazzo affascinante e carismatico che percorre strade e mulattiere dell’America del Sud evoca l’immagine del cavaliere errante, dell’ eroe antico che combatte e muore da valoroso Pochi giorni prima della morte (un periodo particolarmente drammatico, raccontato da Steven Soderbergh nel suo film, Che) il Comandante trascrive nel suo diario boliviano una parte della Litanie per nostro signore Don Chisciotte del poeta Rubén Darìo.
Re dei nobili cavalieri, signore dei tristi,
che dalla forza trai coraggio e di sogni ti vesti,
vinto dall’aureo elmo dell’illusione;
che nessuno ha potuto sconfiggere ancor,
per lo scudo al braccio, tutto fantasia,
e la lancia in resta, tutta cuore.
Nobile pellegrino dei pellegrini,
che santificasti tutti i sentieri
con l’augusto passo del tuo eroismo,
contro le certezze, contro le coscienze,
e contro le leggi e contro le scienze,
contro la menzogna, contro la verità… (…)
Tu, per cui poche furon le vittorie
antiche, e per cui le classiche glorie
sarebbero il minimo dovuto,
sopporta elogi, memorie, discorsi,
resisti a convegni, targhe, concorsi,
e, tenendoti stretto a Orfeo, lascia che cantino in coro.
Prega con noi, affamati di vita,
con l’anima in subbuglio, con la fede perduta,
pieni d’angoscia e orfani di sole,
per colpa di volgari spiriti di manica larga
che ridicolizzano l’essere della Mancha,
l’essere generoso e l’essere spagnolo!
(…) Prega generoso, misericordioso, orgoglioso;
prega casto, puro, celeste, coraggioso;
intercedi per noi, supplica,
poiché siamo ormai quasi senza linfa, senza germogli,
senz’anima, senza vita, senza luce, senza Chisciotte,
senza piedi e senz’ali, senza Sancho e senza Dio.
Da tante tristezze, da dolori tanti,
dai superuomini di Nietzsche, da canti
afoni, dalle ricette firmate da un dottore,
dalle epidemie, da orribili bestemmie,
dalle Accademie,
liberaci o signore!
Dai rozzi rimestatori
falsi paladini,
e spiriti fini e blandi e vili,
dalla feccia che sazia
la sua canagliocrazia
prendendosi gioco della gloria, la vita, l’onore,
dal pugnale di grazia,
liberaci o signore!
Prega per noi, signore dei tristi,
che dalla forza trai coraggio e di sogni ti vesti,
cinto dall’aureo elmo dell’illusione;
che nessuno ha potuto sconfiggere ancor,
per lo scudo al braccio, tutto fantasia,
e la lancia in resta, tutta cuore!
Ma la figura di Ernesto Guevara si alimenta anche di errori e contraddizioni, di incroci rimasti oscuri di cui molti si sono appropriati, spargendo spesso e volentieri fango e calunnie, spacciate per realtà. Quello di cui non ci si può appropriare sono invece le sue idee, messe sulla carta, nero su bianco, nella convinzione che solo la verità è rivoluzionaria e che libertà non è una bella poesia o una parola come tante, un vuoto a rendere, ma un termine denso di significato, per il quale lottare. E morire.
Un sognatore? Un romantico? Un illuso? Un fallito? Forse. Resta il fatto che in nome della verità, della libertà, della giustizia e dell’autodeterminazione dei popoli il Che è vissuto ed è morto. Che ha sfidato a viso aperto una visione del mondo in cui imperano diseguaglianze senza fine. E’ questo è sembrato a molti una ragione più che sufficiente per seguirne i passi e il motivo per il quale, come ricorda Osvaldo Soriano, “il Che conserverà sempre tutto il suo valore”. Anche in un tempo in cui il capitale sembra avere vinto su tutti i fronti, che può vantare opposizioni e contraddizioni epocali, egoismi e paure infinite.
A 50 anni dalla morte il guerrigliero, il mito, l’eroe e soprattutto l’uomo è ricordato in questi giorni alla Fabbrica del Vapore di Milano con una mostra intitolata Che Guevara Tú y Todos (il titolo è tratto dall’ultima lettera alla moglie) che, sullo sfondo delle musiche di Andrea Guerra, fa scorrere pagine dai diari, lettere, documenti, filmati, immagini (ne pubblico qualcuna in questo post), una selezione rigorosa dello straordinario archivio del Centro de Estudios Guevara, per ripercorrere la parabola esistenziale e politica del Che, la vita familiare e quella pubblica.