Carne y Arena, o della condizione umana secondo Alejandro Gonzales Inarritu
Una landa desertica, grigia e desolata sotto una luce ancora incerta tra la notte e l’alba, su cui campeggia la sezione anatomica di un cuore diviso da una linea tratteggiata, il confine tra U.S. e THEM, Noi e Loro, Stati Uniti e Messico. E’ la locandina di Carne y Arena (Virtually present, Phisically invisible), installazione in VR firmata da Alejandro Gonzales Inarritu, prodotta da Legendary Entertainment e Fondazione Prada, presentato in anteprima al Festival di Cannes.
Il pluripremiato regista di Amores perros, 21 grammi, Babel e Revenant ha scelto la realtà virtuale per raccontare le storie di donne e uomini che ogni giorno cercano –ma non sempre riescono- di/a oltrepassare la frontiera tra il Messico e gli States. Sono loro gli invisibili, i fantasmi (come li chiama il fotografo Platon Antoniou nel suo reportage Storie di fantasmi al confine tra Stati Uniti e Messico) che invadono le città americane andando a ingrassare il mercato del lavoro nero. Gente ridotta a carne senza volto né nome dai trafficanti al confine e da chi, dall’altra parte del confine, li sfrutta come schiavi e che invece un nome e un volto ce l’ha.
Nel set allestito da Inarritu si cammina a piedi scalzi sulla sabbia, tra mucchi di scarpe rotte e ciabattine di plastica, uno zaino in spalla e un casco virtuale che ti proietta nel deserto messicano, sotto un sole implacabile, insieme ad altri poveracci, persino dei bambini, elicotteri che volteggiano in cielo come in Apocalipse Now e poi l’arrivo degli agenti federali che ti puntano i fucili addosso. Sembra di essere in un videogame ma è tutto vero, accade ogni giorno nel nostro evoluto Occidente.
L’idea è sbocciata per caso, al Centro di accoglienza di Catania. Inarritu ha osservato, registrato storie, ha rivolto lo sguardo al Mediterraneo e vi ha sovrapposto l’immagine del deserto messicano. In un luogo come nell’altro la gente scompare, si inabissa tra le onde del Grande Mare o sotto cumuli di sabbia nella traversata della morte o, ancora, nelle carceri della frontiera. Storie che si assomigliano tutte, nel mare come nel deserto.
Quando il regista messicano è tornato a casa ha cominciato a raccogliere testimonianze dirette, ha coinvolto Emmanuel Lubezki per filmare le persone, i loro oggetti, il deserto e il muro di 2mila miglia tra San Diego e Tujiana. Una umanità derelitta in cerca di una vita migliore o di scampare alla morte, che Trump ha definito criminali e stupratori. La stessa che approda sulle nostre coste, viva o da cadavere, di cui il resto Europa si disinteressa.
La narrazione virtuale, più e meglio di quella cinematografica, diventa realtà, non sei un semplice spettatore ma sei anche tu un fuggitivo, ti trovi da un momento all’altro proiettato in un mondo dove regnano sovrani terrore e morte, dove senti il cane gelido del fucile che ti viene puntato in viso, dove vedi accanto a te un bambino che cade a terra, senza vita, in un deserto livido che assume poco per volta la forma di un teschio, l’altro volto di un mondo ipocrita e disumano.
Per vedere l’installazione info su http://www.fondazioneprada.org/project/carne-y-arena/
(Nelle immagini alcuni scatti del reportage di Platon Antoniou Storie di fantasmi al confine tra Stati Uniti e Messico)