Achille Curcio, il dialetto e il potere salvifico della parola
La verginità del dialetto, con quanto di equivoco può in essa sussistere, correda subito di una ragione poetica … gli oggetti che semplicemente vengono”. “Riprendendo un’idea di Coleridge, si potrebbe dire che la poesia dialettale è un paesaggio notturno colpito a un tratto dalla luce. Per quanto mediocre essa sia … pone sempre di fronte a un fatto compiuto, con tutta la fisicità di una nuvola o di un geranio…”. Così scrive Pier Paolo Pasolini negli anni ’50 parlando della scelta del dialetto come mezzo espressivo più autentico, laboratorio linguistico e culturale capace ogni volta di creare e ri-crearsi, di re-inventare l’esistente, di ri-nominare le cose.
Tema più volte sondato da Pasolini come da Montale, da Pascoli e da Achille Curcio, uno dei maggiori poeti contemporanei, che qualche giorno fà ha spento 85 candeline.
85 anni e non dimostrarli. Specialmente se hai dedicato la tua vita alla poesia, e alla poesia in dialetto calabrese in particolare, portata nei borghi nelle città del Bel Paese. E poi in Svizzera e poi in Canada e in Australia. Ma il centro di gravità permanente è Catanzaro e lo Jonio sul quale si affaccia la casa amatissima, luogo dove ritrovarsi per scrivere, leggere, studiare, incontrare gli amici e i numerosi ospiti che arrivano da lontano per poterlo vedere e ascoltare i suoi versi. La casa che dà sul mare fedele custode del mito, luogo dove coltivare le proprie visioni, meditare sulla nostra fragile esistenza e le sue infinite variabili, dove cantare e cuntari, in attesa di celebrare giorno dopo giorno il rito eterno della parola poetica.
Il poeta e la sua responsabilità di sorvegliare il mondo e svelare la verità. Di gridare come Cassandra per essere ascoltato, come scrive Grace Paley. La poesia dialettale come scelta di campo perché solo strumento capace di restituire con immediatezza e potenza lo scorrere tumultuoso della esistenza, il cui moto perpetuo trascina tutto con sé, passato, presente e futuro, ansie e speranze, l’amuri e li nganni.
In pochi autori dialetto e linguaggio poetico si saldano in modo così straordinario, in un universo multiforme di segni e temi che attestano la perdurante vitalità del parlato, che si nutre di scambi e moti continui, che nel contaminarlo e ibridarlo non ne intaccano la purezza quanto ne manifestano e ne rinnovano ogni volta, piuttosto, l’intatta forza espressiva.
Moti in cui si innesta anche il poeta quando prende in mano la materia linguistica, la impasta, la trangugia, la metabolizza e la riporta a nuova vita. E ogni volta il ritorno alla lingua materna è epifania creativa e segno di resistenza all’omologazione dei linguaggi, testimone vivo della sopravvivenza di un mondo, di una cultura, della parola che dalla periferia dell’impero chiede a voce alta di essere ascoltata, in una realtà sempre più sorda.
Nell’incanto del suono e della melodia si traducono riflessioni, ricordi, moti dell’animo, immagini racchiuse nello scrigno del proprio passato (‘U poeta non rida), città (La mia Catanzaro) stappate all’invisibilità per diventare protagoniste esse stesse (dalla Londra di Virginia Woolf alla Trieste di Svevo sino alla Marsiglia di Izzo, gli esempi sono infiniti) dell’universo lirico dell’autore.
Il tormento dell’urgenza di esprimersi e la sofferenza della tensione poetica nel dare nome alle cose si sciolgono, come scrive Luigi Tassone, che di Curcio è il maggiore studioso, nella capacità del poeta catanzarese di raccontare con voce chiara e limpida la tragicità contemporanea, ma anche nella sua fiducia nel “guardare ad occhi aperti tanta contraddizione”.
Le foto di questo articolo sono tratte dalla mostra Bookhouse, la forma del libro (Catanzaro, 2013).
(L’articolo è stato pubblicato in versione ridotta su www.linkingcalabria.it)