100 anni di dada
1916. La Grande Guerra scuote il Vecchio Continente dalle fondamenta. Italiani e austriaci muoiono a migliaia sul Carso, le battaglie di Verdun e della Somme inanellano nuovi primati nella triste conta dei morti. Negli stessi mesi, a Zurigo, nella Svizzera neutrale, trovano rifugio artisti, scrittori, musicisti provenienti da ogni parte d’Europa.
Li accomuna il desiderio di superare nazionalismi e furori bellicisti quanto accademia e cultura ufficiale. E mentre i cannoni rombano in lontananza loro cantano, dipingono, scrivono poesie.
Il loro punto di riferimento si trova al numero 1 di Spiegelgasse, si chiama Cabaret Voltaire ed è lo spazio attorno al quale si riuniscono Tristan Tzara, Jean Arp, Marcel Janco, Apollinaire, Paul Klee, De Chirico. Qui il regista e attore Hugo Ball e la sua compagna Emmy Hennings chiamano a raccolta la comunità dei rifugiati per offrire musica, danza, letture. Ne escono fuori performance provocatorie e dissacranti, che offrono ampio materiale alla critica per stroncature senza possibilità d’appello, al pubblico per liti colossali e a Tzara per scrivere il Manifesto ideologico di un nuovo movimento artistico che si dichiara contro tutto e tutti: contro la tradizione e la cultura dominante, contro i principi e contro i manifesti, contro la critica e le convenzioni.
Dada non significa nulla, chiarisce Tzara, è solo una parola.
Perchè la bellezza è morta. Perchè è impossibile “far ordine nel caos di questa informa entità infinitamente variabile: l’uomo”. Perchè l’aspirazione alla logica non serve: davanti a noi c’è solo la “follia indomabile, la decomposizione“, come recita il Manifesto.
Eppure da quel gioco da pazzi uscito dal nulla, come lo definirà Ball nel suo diario, sono nate tutte le principali esperienze artistiche del Novecento. Senza lo spirito vitale del dadaismo, la più rivoluzionaria di tutte le avanguardie, senza quel magma incandescente che voleva azzerare tutto -profeti compresi-, che guarda al mondo con ghigno beffardo e sfrenata libertà, che confonde alto e basso, colto e popolare, il peggio e il meglio, non ci sarebbero Fluxus nè John Cage, Amiri Baraka e Ornette Coleman, l’Art Ensemble Of Chicago e Frank Zappa, Stockausen e Coltrane. Ma neanche i Clash e i Sex Pistols, gli
Skiantos, Jimi Hendrix, Lou Reed, Lady Gaga.
Lo spirito Dada infatti oltrepassa le mura del Cabaret Voltaire, esperienza chiusa dopo qualche mese, per essere accolto ovunque, in Europa come oltre Oceano, negli anni a venire, perché Dada è la
Da-da. Due sillabe che vanno oltre qualsiasi significato per rimandare al gesto che nomina le cose, riscrive la realtà, ridefinisce l’universo. L’arte diventa pura azione, performance, happening. Comunicazione sonora, visuale, gestuale, che si fonda sul cortocircuito linguistico. Un’arte totale che assimila elementi artistici diversi proiettando il pubblico in una anarchica performance collettiva, che mette in scena il caos dell’esistenza.
Il gesto e la sua potenza iconoclasta. Che distrugge idee e visioni preconfezionate. Cos’è l’arte? La Gioconda è arte? Ma lo è anche un gomitolo o una ruota di bicicletta se è frutto della creatività umana, perchè tutto è arte. Soprattutto se condita da una robusta dose di ironia dissacrante. Così Duchamp mette in scena i suoi Ready-made, il suo orinatoio capovolto, la Gioconda barbuta. Visioni del mondo divenute celebri quanto i capolavori che essi vogliono demolire.