Letture selvagge: Less di Andrew Sean Greer

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Le vie del Signore sono infinite. Quasi quanto quelle percorse da uno scrittore giunto in mezzo al cammin di nostra vita, che decide di sfuggire al matrimonio del suo ex compagno e alla crisi di ispirazione immergendosi in un giro del mondo decisamente folle e sgangherato nel quale riconquisterà sé stesso, insieme alla scrittura e all’amore. E se poi il tipo in questione di nome fa Arthur Less quasi a voler paradigmaticamente descrivere lo stato di un uomo che si è sempre avvertito debole e mediocre, irrilevante di fronte a ciò che la vita gli ha dato, il gioco è fatto.

Ed eccolo, il nostro Arthur, protagonista di Less (trad. Elena Dal Pra, La nave di Teseo), l’ultimo romanzo scritto dall’americano Andrew Sean Grear, che gli è valso il Pulitzer 2018, keith_haring_ohne_titel-_1982_c_private_keith_haring_foundation.1200x0cinquantenne rimasto in fondo il ragazzo dal fisico svelto, la carnagione rosea e dorata solo un po’ sbiadita dagli anni, i capelli “di un biondo slavato troppo lunghi in cima e troppo corti ai lati”, il “lungo naso aristocratico perennemente bruciato dal sole”, gli stessi “occhi azzurri acquosi” e la medesima incrollabile “infantile fiducia” nel pigro moto degli ingranaggi dell’esistenza. Ma, soprattutto, con le insensate paure (proiettate invariabilmente sull’uso di quello strano aggeggio chiamato telefono come sui taxi e i maschi decisamente attraenti) e quella incapacità di forgiarsi una robusta corazza contro i tormenti dell’amore, di un tempo.

E quella consapevolezza profonda della propria irrilevanza, lui che in gioventù aveva frequentato gli esponenti della Russian River School ma non era mai stato capace di scrivere un libro che potesse essere ricordato dal tizio che occupa il posto accanto al tuo in aereo, lui che aveva annodato un pezzo della sua esistenza al grande poeta Robert Brownburn senza avere assorbito neanche un grammo del suo talento, che aveva condiviso gli ultimi nove anni della sua vita con un certo Freddy Pelu, pronto a salire sull’altare con un altro. L’uomo che ora è “in caduta libera dal ponte crollato delle sue residue speranze”, che a chi gli chiede chi è risponderà, come Ulisse a Polifemo: Nessuno.

E allora perché non accettare di andare a New York per un intervista, poi a Città del Messico, a Torino per ritirare un prestigioso premio letterario, a Berlino per tenere un corso, nel deserto del Sahara per il suo compleanno, in un resort indiano affacciato sul Mar Arabico e poi in Giappone per un reportage sulla cucina kaiseki. E infine di nuovo a San Francisco, sperando di avere dimenticato Freddy Pelu il neosposo.

Citate un solo giorno, una sola ora in cui Arthur Less non abbia avuto paura. Di ordinare un cocktail, di prendere un taxi, di tenere una lezione, di scrivere un libro. Paura di questo e di quasi qualunque altra cosa al mondo. Strano, però; proprio perché ha paura di tutto, nulla gli risulta più difficile di qualcos’altro. Fare il giro del mondo non lo terrorizza più che comprare un pacchetto di gomme. La dose quotidiana di coraggio.

Eppure in quel passaggio esilarante e straziante da ovest ad est il nostro Less riconquista il suo haringpassato e il futuro, la fiducia in sé stesso e la rinascita a nuova vita. Un cammino in un inferno metaforico in cui verrà guidato, novello Dante, da un eterogenea gruppetto che di virgiliano ha poco o nulla, un uomo di cui rischierà di innamorarsi; una donna terrorizzata dall’incedere del tempo e dalla solitudine; l’amico di sempre, Lewis; da Carlos, padre di Freddy; dal vecchio Robert scampato ad un ictus ma non all’affetto per l’uomo che ha amato più di tutti. Per ritrovare alla fine un pezzo del proprio passato mai perso completamente.

Less non è conosciuto come insegnante, così come Melville non era conosciuto come ispettore doganale. E tuttavia entrambi ricoprono rispettivamente quei ruoli…. Di consenguenza, Less a tenere una lezione vera e propria si sente a disagio. Preferisce invece ricreare con gli studenti quei giorni perduti… ritaglia un paragrafo di Lolita e chiede ai giovani dottorandi di riassemblare il testo come meglio desiderano. In questi collage, Humboldt da diabolico diventa un rincitrullito che confonde ingredienti del cocktail… Poi consegna loro una pagina di Joyce e una boccetta di bianchetto, e Molly Bloom finisce per dire semplicemente “Sì”.

Greer imprime ironia e leggerezza, sarcasmo e lirismo, in questa storia brillante e divertente che si muove circolarmente nello spazio e nel tempo al suono della electro-pop degli anni ’70 e della poesia della Beat Generation, raccontata attraverso il doppio sguardo di Less e del misterioso narratore (si rivelerà alla fine Freddy), una cavalcata tra i paradossi dell’esistere in cui benvenuti protagonisti sono l’uso virtuoso e funambolico della parola e l’eterna magia della scrittura.

E cosa mai si chiede a uno scrittore salvo “Come?” e la risposta, quella che darebbe lui stesso, è ovvia: “E chi lo sa!”

(Nelle immagini, opere di Keith Haring)

 

 

 

 

 

 

 

 

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01. giugno 2018 by Anna Puleo
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Anniversari: Franco Basaglia, l’utopia in cammino

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“Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere anche sé stesso”. Così scriveva Primo Levi in Se questo un uomo, rivolgendosi a quel Voi che apre il libro e che traccia il confine tra i sommersi e i salvati e il resto dell’umanità, interpella le coscienze di tutti e di ciascuno, esigendo non solo impegno nell’esercizio di una memoria che è strumento meraviglioso ma fallace ma soprattutto un’ attenzione vigile verso ciò che è accaduto e che potrebbe accadere ancora, pronto a riemergere dalle zone oscure delle nostre democrazie.

 

Ho pensato a lui quando ho visto le foto di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin che cinquant’anni fa compivano il loro viaggio nell’inferno dei manicomi di Gorizia, Parma e Firenze, e ne ritraevano gli spazi, i corpi, gli sguardi, i gesti, in un libro di denuncia e riflessione, Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin (Einaudi), curato da Franco Basaglia e da sua moglie Franca Ongaro. Un progetto che grazie al mix tra foto e parole (da Brecht a Fanon a Primo Levi) restituiva al pubblico uno sguardo plurimo sulla follia e il folle.basagliaceratigardin2

Nello stesso anno in cui i Basaglia lavoravano con Cerati e Berengo Gardin, il 1968, esce uno dei testi cardine della psichiatria contemporanea e dei movimenti di quegli anni, L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (Einaudi) sessantamila copie vendute in pochi mesi, un premio prestigioso come il Viareggio, decine di traduzioni in diverse lingue. Un testo in cui Franco Basaglia parte dagli spazi, i manicomi, per parlare delle istituzioni totali, della violenza del potere e della sua riproduzione, per esplorare la galassia della malattia psichica e le figure che vi ruotano attorno, il rapporto con i ‘normali’. Basaglia ne fa il punto di partenza per un dibattito pubblico, portando il suo pensiero eterodosso e singolare tra la gente, gli studenti, facendone terreno di confronto con la politica.

Mettere in campo lo scenario sociale in cui si sviluppa la malattia non significa, beninteso, attribuirne la causa unicamente alla società perché ciò significherebbe negare che il tema è complesso e involge il rapporto con il corpo, l’esistenza della medicina, della sua pratica e della sua rappresentazione, il conflitto tra noi e il contesto in cui viviamo, che genera frustrazione, bisogni negati, e “ci costringe a trovare strade anomale e tortuose che passano attraverso la mediazione della malattia, perché ci è impedito di esprimerci in modo immeditato”.

Dire che la follia è un prodotto biologico, oppure organico, psicologico o sociale significa seguire la moda di un determinato momento. Io penso che la follia e tutte le malattie siano espressioni delle contraddizioni del nostro corpo, corpo organico e corpo sociale. La malattia (…) si verifica in un contesto sociale ma non è solo un prodotto sociale, è una interazione tra tutti i livelli di cui siamo composti, biologico, sociale, psicologico, e di questa interazione fanno parte una enorme quantità di variabili (…) Il problema sta nella relazione fra il nostro corpo organico e il corpo sociale nel quale viviamo.

Aveva iniziato a portare nel manicomio di Gorizia il primo nucleo (sul modello di quella scozzese dibasagliaceratigardin4 Melrose) di comunità terapeutica, agita da tutti, pazienti, medici, personale, nella quale far affiorare la condizione del malato, che perde sé stesso due volte, come malato e all’interno dell’universo concentrazionario, nel suo articolato rapporto con il manicomio e la sua organizzazione, a partire dall’uomo psichiatra, cui viene affidato dalla società. Basaglia pone già cinquant’anni fa in questo testo fondamentale il tema (tuttora attualissimo) della tensione continua dell’ istituzione chiusa a replicarsi in modi e tempi diversi, in una torsione, anch’essa permanente, che la pone in conflitto con i valori fondamentali, anche per la nostra Costituzione, della libertà individuale, che impongono un deciso ripensamento delle strutture manicomiali e della violenza ripetuta sui malati.

…finché si resta all’interno del sistema, la nostra situazione non può che essere contraddittoria: l’istituzione é contemporaneamente negata e gestita, la malattia é messa tra parentesi e curata, l’atto terapeutico rifiutato e agito.

L’incontro con Foucault, Laing, Sartre, l’appoggio della moglie Franca, degli amici –come Hugo Pratt- e di tanti colleghi, spinge lo psichiatra veneziano a continuare la sua strada e ad approfondire alcuni punti critici, comuni alla rete delle strutture di assistenza, come l’incapacità di riconoscere l’umanità del singolo e la pervasività del dominio che moltiplica i casi di regressione e di cronicizzazione della malattia.

Gorizia è un posto a parte. Niente costrizioni né elettroshock, ma laboratori e riunioni quotidiane tra operatori e pazienti e porte aperte alla città e oltre (famoso fu un concerto di Ornette Coleman che duettò con una malata). Farà da modello alla legge 180 come ad innumerevoli altre esperienze nel resto del mondo.

Basaglia dà voce ai corpi negati, umiliati, violati. Ma dà anche voce alle domande dello psichiatra, basagliaceratigardin3come medico, come cittadino, e soprattutto come uomo. Si interroga sull’essere e gli orizzonti della psichiatria, sul ruolo di una scienza che è diventata un castello di classi e sottoclassi, indicatori indefettibili di ciò che è normale e di ciò che normale non è, e che in questo processo di costruzione del diverso ha perso di visto l’essere umano.

Domande che urgono, incalzano, che dettano il ritmo de L’istituzione negata come degli scritti successivi, che registrano lo scarto continuo nel concetto della malattia “come puro accidente oggettivabile dalla scienza e non come esperienza personale”.

Le idee di Basaglia sulla necessità di distruggere le istituzioni restrittive (“bruciare le navi…distruggere le vele, il timone, le gomene, tutto, perché questa nave non può essere…affondata se non la si distrugge pezzo per pezzo”), la sua pratica delle contraddizioni, la stessa legge 180, non furono condivise né spesso comprese neanche da quei movimenti che si muovevano nel medesimo orizzonte di senso. Certo, quel tentativo di portare il manicomio tra la gente, fuori dall’agone scientifico, avviata con il reportage di Carla Cerati e di Gianni Berengo Gardin, ebbe un insperato successo, sollecitò altri fotografi, giornalisti, la stessa Tv pubblica (in primis il bel progetto di Sergio Zavoli I giardini di Abele) a occuparsi di ospedali e malattia psichiatrica, ad allargare in cerchi concentrici sempre più ampi il dibattito, ad “aiutare la comunità a capire ciò che voleva dire la presenza di una persona folle nella società”.

Un tema che in qualche modo era iniziato a penetrare anni addietro in alcune strutture, come quella di Girifalco, luminoso borgo sul Mar Jonio, reso famoso dai romanzi di Domenico Dara e dalle pratiche terapeutiche d’avanguardia sperimentate nel locale manicomio, modello in vitro delle future sperimentazioni di apertura al territorio (lo racconta bene Uscirai sano, un docufilm della regista Barbara Rosanò ).

Le parole di Basaglia hbasagliaceratigardin5anno superato spazio e tempo, ci hanno raggiunti e continuano a interpellarci, a sfidarci, a metterci di fronte alle nuove forme, sempre più pervasive e sottili, di dominio. Possiamo accettare la sfida e cogliere l’immanente originalità e attualità del suo pensiero se ci facciamo pervadere e nutrire da esso, se acconsentiamo ad entrare in quella dimensione di progetto aperto, di “incompletezza da completare”, nata mezzo secolo fa in una città di frontiera da un uomo che le frontiere aveva imparato ad attraversarle.

Per Sartre “Kierkegaard vive se è possibile per noi diventare Kierkegaard, o se all’inverso questo morto non cessa di farsi istituire dai vivi prendendo a prestito la loro vita, infiltrandosi in essa e nutrendo la sua singolarità con la nostra.” Potremmo dire qualcosa di analogo per Basaglia: si può capire la sua impresa e in certa misura incontrarlo se e in quanto “leggendo le sue parole io risalgo fino a me stesso, voglio cogliere lui ed è me stesso che colgo”. … l’ “irrimediabile singolarità” di Basaglia che si è “superata verso un senso che prima non aveva” e che Sartre chiama “universale singolare”, mi rinvia alla mia singolarità, al mio agire, al mio farmi. Ci sono dei morti che vivono, concludeva Sartre, che “condizionano il nostro ancoraggio e si fanno istituire, una volta scomparsi, come nostro avvenire, come nostro compito futuro”, e questo possiamo dirlo anche di Basaglia e dell’ impresa da completare che ci ha consegnato. (Maria Grazia Giannichedda in F. Basaglia, L’utopia della realtà, Einaudi 2005)

(Le immagini sono tratte dal libro Morire di classe

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15. maggio 2018 by Anna Puleo
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Marco Petrus, sguardi incrociati e architetture urbane

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Una sequenza di finestre, porte, strade, squarci urbani, che a un certo punto diventano pure geometrie, corpi solidi, strati su strati di volumi e forme, piramidi in precario equilibrio. C’è chi l’ha paragonato a Hopper, chi a Morandi. Ma le fonti di ispirazione per Marco Petrus sono molteplici, comprendono le geometrie rigorose e deformate di Escher, le ardite prospettive rinascimentali e le architetture immersive dei videogames, espressionismo e neoavanguardie.

 

Una sorta di viaggio nel paesaggio urbano contemporaneo, tra torri e grattacieli, palazzine liberty ed arte Petrus ATLAS-Atlas-11-2014-carboncino-su-cartone-cm121x181enormi alveari residenziali, tra stazioni ferroviarie, cortili oscuri, periferie spettrali. Siamo a Milano, Roma, Praga, come potremmo essere a Los Angeles o Miami. Marco Petrus, negli anni ha condiviso con il pubblico il suo atlas obscurus delle architetture urbane, componendo pezzo dopo pezzo il puzzle di una città ideale, enigmatica e a tratti spiazzante. Luogo mitico e specchio di un presente inquietante, fatto di forme pendule o sovrapposte, minacciose e destabilizzanti.

Un intrico di cemento da cui l’uomo sembra essere stato bandito, uniche protagoniste le strutture stilizzate, sottoposte a un profondo processo di astrazione e raffreddamento che elude il flusso dell’esistenza, quasi a volerne restituire l’intrinseca purezza.

Fuori dal dibattito che negli anni passati ha avuto per oggetto non luoghi e le città invisibili di calviniana memoria, Petrus si concentra sulla metropoli e il suo skyline, paradigma di una contemporaneità frammentata e alla perenne ricerca di un suo equilibrio e allo stesso tempo di un tentativo di resistere a ibridismi e melting pot, cercando di ritessere la trama lacerata di un territorio attraverso una progettualità che ne scompone e ricompone le parti.

Una antologica dell’artista riminese, uno dei più affermati nel panorama nazionale e non solo, sarà proposta dal Marca di Catanzaro a partire dal prossimo 12 maggio, grazie a una selezione, curata da Elena Pontiggia, di 35 opere datate dal 2003 al 2017, accompagnate da un catalogo con saggi della stessa Pontiggia, Dulio, Cataluccio, Bonuomo, Irace.

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10. maggio 2018 by Anna Puleo
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Marx oltre Marx

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La carrellata sui broker di Wall Street che assistono impotenti al disastro della Lehman con cui Raoul Peck chiude il suo ultimo film Il giovane Marx, appena uscito nelle sale, è forse il miglior sigillo al motivo del costante successo a due secoli esatti di distanza, di un pensiero che ha percorso il tempo e lo spazio, consacrandone la sua permanente attualità.

 

Incoronato da un sondaggio inglese, che qualche anno fa ha appassionato la Gran Bretagna, come il più grande filosofo che la storia umana conosca, prima di Platone, Kant, San Tommaso, arte pedro reyesSocrate, al primo posto, precedendo anche Einstein e Newton, nella classifica dei maître à penser, Karl Marx ha indubbiamente saputo cogliere e analizzare in tutte le loro sfaccettature problemi e torsioni, tendenze e contraddizioni del nostro tempo, globalizzazione compresa.

 

Non è un caso che in questi anni in molti sono tornati a leggere Il Capitale, mentre proliferano le ristampe del Manifesto del Partito Comunista e del complesso delle opere, scritte a quattro mani con l’amico Friedrich Engels, non si contano più gli studi e le biografie, soprattutto nell’imminenza del bicentenario della nascita (5 maggio 1818). Tanto per confutare chi da sempre lo proclama morto e sepolto insieme alle sue denunce e agli strumenti di analisi di cui ha disseminato i suoi scritti, senza avvedersi che sono proprie le sue intuizioni e la sua capacità di visione sistematica a riaffermarne, oggi più di ieri, la grandezza. Una visione spesso distorta dalla assimilazione ai regimi totalitari del secolo scorso, che tuttavia resta fondamentale per ripensare dal fondo il pensiero politico occidentale.

 

Nel suo nuovo saggio Slavoj Zizek ci invita a rileggere Marx e a dialogare con alcune delle sue TRUMPparole-chiave per capire il fallimento del neoliberismo e la crisi in cui l’Occidente va dibattendosi. Peraltro, alcune di queste, come merce, forza lavoro, alienazione sfruttamento, fanno mostra di sé non solo tra le pagine di poderosi saggi ma anche sui cartelli innalzati dai lavoratori in sciopero o nei cortei di protesta degli indignati di mezzo mondo.

 

Concetti come quelli di crescita, che non può essere infinita, spiegava già il filosofo di Treviri, offrono gli strumenti concettuali per capire il mutarsi proteiforme del capitale che oggi punta su digitalizzazione e nuove tecnologie, vedi la robotica, per risparmiare sulla forza lavoro. L’analisi dell’inevitabile avvitarsi del capitalismo in una serie continua di crisi o del suo ruolo sulle condizioni dei lavoratori trovano eco oggi nella crescita esponenziale della forbice tra ricchi e poveri. E che dire dell’analisi spietata compiuta nel Manifesto di come il capitale abbia proiettato su una scale transnazionale produzione e consumi, moltiplicando la rete dei bisogni che, insoddisfatti da quelli locali, esigono sempre nuove fonti di appagamento provenienti dai “paesi e climi più lontani” o, ancora, del duplice valore connesso a ogni prodotto che può fungere da lente d’ingrandimento su mercati sempre più immateriali e sfuggenti, come la bolla immobiliare e i mutui subprime hanno abbondantemente dimostrato. Così, in un mercato dominato dalla smaterializzazione un iPod mantiene la griffe Apple (California) solo sulla parte dei servizi di progettazione, sviluppo e distribuzione mentre la componentistica, la parte, insomma, fisica viene prodotta tra Cina, Giappone e Taiwan.

 

Marx economista, filosofo, politologo, sociologo, Marx scrittore e poeta. Soprattutto, Marx oltre pedro reyes arte marx Marx scrive Agnes Heller. Perché, liberato dalle incrostazioni del tempo, letto a sinistra come a destra, Marx è finito per entrare nell’immaginario collettivo e a diventare una icona pop, citata da Brecht e Bunuel come dai Monty Pyton. Senza perdere per questo la complessità del suo pensiero. Come dimostra l’artista messicano Pedro Reyes che al MIT di Boston in Manifacturing Michief fa dialogare il grande pensatore tedesco con Noam Chomsky, con Trump ed Elon Musk, appassionato di Intelligenze Artificiali.

 

 

“…la natura dell’uomo è tale che egli può raggiungere la propria perfezione individuale solo agendo per il perfezionamento e il bene dell’umanità”, scriveva Marx a 17 anni. Una massima che seguì con coerenza in tutta la sua esistenza, segnata da un lavorio continuo, nonostante la miseria e la precarietà quotidiana, sorretto da un’etica scientifica sempre rigorosa e da un sapere che travalica i confini dati, che percorre da sempre la strada del genio.

(Nelle immagini, Pedro Reyes, Manifacturing Michief)

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04. maggio 2018 by Anna Puleo
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Ricordando Vittorio Taviani e Milos Forman

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Non so spiegare neanch’io il perché, ma quando penso al cinema dei fratelli Taviani la prima immagine che emerge è quella di un bambino chiuso in uno spazio buio e angusto che, cercando di esorcizzare la paura e l’umiliazione della punizione subita, recita una filastrocca, <<San Michele aveva un gallo bianco rosso verde e giallo, e, per addomesticarlo, gli dava latte e miele…>>, destinata a essere ripetuta come un mantra anche da adulto.

 

Questa scena mi conduce subito dopo da un’altra parte, nello spazio chiuso di un manicomio nel quale un uomo porta una ventata di ribellione e di vita. <<Gesù, voialtri non fate altro che sanmicheletavianilamentarvi di stare in questo posto. Ma non ce l’avete il coraggio di andarvene via da qua dentro? Ma che cosa vi credete di essere, vacca troia? Pazzi? Davvero? Invece no. E invece no. Voi non siete più pazzi della media dei coglioni che vanno in giro per la strada, ve lo dico io>>.

La prima inquadratura appartiene a San Michele aveva un gallo che porta la firma di Paolo e Vittorio Taviani, la successiva a un vero e proprio cult-movie come Qualcuno volò sul nido del cuculo, diretto da Miloš Forman, che nel 1976 fece incetta di Oscar (ben cinque), Golden Globe, dei prestigiosi Bafta, dei David di Donatello e di un fiume di altri premi.

Due film che rimandano al miglior cinema d’autore, ma anche capaci di condensare in poche immagini il Sessantotto, di cui quest’anno celebriamo il mezzo secolo.

San Michele aveva un gallo datato1972 ma uscito nelle sale quattro anni dopo, ispirato da un racconto di Lev Tolstoj, Il divino e l’umano, attraverso la figura di un anarchico, Giulio Minieri, eroe romantico che tenta, senza successo, di far sollevare un piccolo paese umbro (siamo nel 1870), racconta l’utopia rivoluzionaria e il suo mesto addio di fronte al nuovo che avanza, portato dai venti dell’ industrializzazione e del socialismo scientifico. La ribellione individuale, il socialismo utopico e l’analisi marxiana dei processi storici e sociali sono tutti temi che penetrarono nel dibattito del Sessantotto, percorsi in lungo e in largo nel decennio successivo, al centro della riflessione dei Taviani e di Forman.

Qualcuno volò sul nido del cuculo, del 1975, tratto da un romanzo di Ken Kesey, è uno splendido

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spaccato, duro e visionario, dell’universo segregazionario, rappresentato dall’ ospedale psichiatrico di Salem (the cuckoo’s nest, nido del cuculo è un’espressione gergale che indica il manicomio), con cui un altro anarchico sui generis, Randle McMurphy, interpretato da uno straordinario Jack Nickolson in uno dei ruoli più importanti della sua carriera, come un ciclone inarrestabile ingaggia un corpo a corpo senza esclusioni di colpi, che pagherà a caro prezzo. Siamo negli anni caldi dell’antipsichiatria, Foucault nelle lezioni al Collège de France esamina le tecniche usate per controllare la follia, fa dell’ospedale psichiatrico un laboratorio ideale per verificare gli strumenti sempre diversi con cui si esercita il potere. Sono gli anni in cui Basaglia sovverte regole e pregiudizi nel manicomio di Gorizia e poi a Trieste, e studiosi come Thomas Szasz e David Cooper con i loro esperimenti mettono in discussione l’idea stessa di follia nelle sue variegate ramificazioni.

Ad unire Milos Forman e Vittorio Taviani, è non solo uno scherzo del destino che ce li ha sottratti a poche ore di distanza l’uno dall’altro, quanto lo sguardo rigoroso e lucidissimo sul mondo e una tensione cosqualcuno-volo-sul-nido-del-cuculo_a-G-12198953-8363134tante nello smascherare i volti sempre dissimili, e tuttavia uguali nella loro pericolosità, del potere. Lo avevano fatto da due punti visuali diversi eppure speculari.

Forman con sguardo affilato e un talento narrativo non comune negli anni ’60, insieme alla nuova onda del cinema cecoslovacco, aveva messo a nudo l’etica del lavoro e i paradossi del socialismo reale, lo straniamento delle ultime generazioni di fronte all’ universo rigido e monolitico dei padri, l’atmosfera asfittica e paradossale della Praga in mano alle truppe russe. Lui era stato fortunato, era riuscito a lasciare il paese e a sbarcare negli States, dove porta il suo occhio anticonformista e ribelle, per cogliere vizi e virtù della middle class (Taking off), la ventata della contestazione e della controcultura (Hair), il periodo proibizionista (Ragtime) raccontando ancora una volta il lato prepotente e oscuro del potere e della ribellione di irregolari come Larry Flint, l’editore del porno che ingaggiò una serrata battaglia legale davanti alla Corte suprema per la libertà d’espressione, o come frate Lorenzo, che vuole cambiare il mondo, prima dalle file dell’Inquisizione poi come ministro di Bonaparte, protagonista de L’ultimo inquisitore, o, ancora, come il genio inquieto e straripante di Mozart nel suo secondo film di successo internazionale, Amadeus.

Vittorio Taviani, insieme a suo fratello Paolo, coppia inseparabile nella vita e nell’arte, aveva scelto lasan michele 1 strada della narrazione della storia italiana, e di quel sottile eppure solido filo rosso che percorre gli eventi più lontani, con i suoi tormentati sommovimenti, il velo che occulta gli artigli affilati del potere, la corruzione e il trasformismo sempre in agguato, evocati splendidamente dai capolavori di Tomasi di Lampedusa e De Roberto e dai due registi in film come San Michele aveva un gallo, Allosanfan, alle lacerazioni del periodo fascista e della guerra (La notte di San Lorenzo) fino ai tempi nostri, in pellicle come Padre padrone, quadro fedele di un mondo rurale e violento, o I Sovversivi, che anticipa il Sessantotto, fino ai più recenti Cesare deve morire e Una questione privata, nei quali Shakespeare e Fenoglio prestano personaggi e vicende ad una Storia destinata ineluttabilmente a ripetersi.

Il regista ceco in un’intervista su L’inquisitore dichiarò che non era un film storico perché quella storia di inquisizioni, di torture e prigioni, che Goya aveva ritratto nei Disastri della Guerra e nei Dipinti neri, evocavano altre inquisizioni, altre torture e prigioni, che ritorneranno, secoli dopo, nella Cecoslovacchia invasa dai carri armati sovietici e sottoposta alla ferrea morsa della ‘normalizzazione’ o nell’Iraq occupato dagli americani (il film è del 2006). Milos Forman, come Vittorio Taviani, era convinto che raccontare una storia, qualunque essa sia, significa fare politica, perché fare arte, alla fine, è fare politica, per evocare ogni volta quel sonno della ragione che genera mostri.

 

 

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18. aprile 2018 by Anna Puleo
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Da Cambridge Analytica a Facebook, ovvero come i giganti del web stanno minando la nostra sfera privata e la democrazia

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Ieri Mark Zuckerberg è comparso davanti alla Commissione del Senato americano. E’ apparso stanco, visibilmente provato. Niente di più lontano dal ragazzo dallo sguardo sorridente e sicuro, dalle maniere dirette e spicce di chi è abituato a vincere, di colui che ha lanciato l’idea del secolo, Facebook, una piazza in cui tutti, a qualsiasi latitudine, possono incontrarsi, discutere, scontrarsi, pubblicare foto e video personali e condividerli con altri 2 miliardi di utenti.

 

Mark vuole apparire ancora il ragazzo che ha affidato alla sua azienda il messaggio di <<idealismo e ottimismo>> ma nei fatti è il capo di un colosso che nel 2017 ha fatturato oltre 40 miliardi di dollari, che si muove con disinvoltura a Wall Street come nell’acquisizione di piattaforme, domini, sistemi zeroottounooperativi (una sessantina ad oggi), che formano una parte considerevole del suo core business, che in questo momento pare muoversi come un elefante nella cristalleria.

Davanti alla Commissione, il CEO del gigante californiano ha ammesso di aver compiuto degli errori, di non aver risposto immediatamente alle manovre di Cambridge Analytica, società di consulenza fondata da quello Steve Bannon che è stato artefice della campagna elettorale di Trump, accusata di essersi appropriata di 87 milioni di profili di utenti Fb e di averli venduti al comitato elettorale di Donald Trump. Ha ripetuto le proprie scuse per quanto avvenuto e confermato che la società ha dato il via a controlli rigorosi sui profili degli utenti. <<Diventeremo poliziotti del sistema>>, dice. E a riprova della trasparenza e della correttezza delle politiche aziendali ha aggiunto che gli utenti sono controllori di sé stessi e che possono gestire come meglio credono il proprio profilo, cancellando post e informazioni o disattivando le informazioni visibili a terzi.

Vero. Zuckerberg non dice tuttavia che ogni attività sul web viene tracciata, comprese la cancellazione delle foto o dei post pubblicati, non dice che l’uso gratuito di un giocattolo divertente (che soddisfa bisogni elementari come quelli identitari, di appartenenza, di ammirazione, come dimostrano diverse ricerche) qual è Facebook ha un costo enorme per noi utenti, che ogni volta che ci colleghiamo cediamo informazioni preziose sulla nostra vita, sui nostri gusti in fatto di scarpe piuttosto che di libri o di spettacoli, sulle nostre abitudini culturali e scelte politiche, dati questi che, grazie a potenti algoritmi, vengono raccolti, categorizzati e venduti (ecco il business) a Cambridge Analytica e altre compagnie. E’ chiaro che di fronte a tutto ciò, la possibilità di controllo del proprio account sembra più che altro una tanica d’acqua versata sul muro di fiamme che divora un bosco.

Nel corso delle cinque ore di audizione, costellata da diversi Non so o Non ricordo (il che non depone esattamente a suo favore), il CEO di Facebook, sotto il fuoco di fila delle domande dei senatori, ha risposto anche sul tema della introduzione di norme più efficaci e stringenti, dicendosi pronto ad applicarle, dichiarazione non proprio in linea con il comportamento renitente del social network ad estendere le norme del nuovo Regolamento europeo sulla protezione dei dati (GDPR) anche agli utenti americani, nonostante le richieste pressanti di diverse associazioni e gruppi di difesa dei consumatori.

Le domande dei senatori, e ancor meno le risposte di Zuckerberg, non hanno allontanato le ombre né placato i dubbi, se una prestigiosa testata come The Atlantic ha avvertito l’esigenza di raccogliere una vasta platea di domande, poste da docenti, amministratori IMG_0033ed esperti, che il Congresso dovrebbe porre al capo del gigante di Menlo Park con riguardo alle politiche di advertising, alle strategie di manipolazione psicologica degli utenti, alla capacità di penetrare all’interno della sfera privata, al suo ruolo e alla sua responsabilità sociale e, ultimo ma non ultimo, ad una nuova regolamentazione dell’uso degli algoritmi e del diritto degli utenti ad un’informazione chiara sui propri dati e sulla loro circolazione.

Alcuni anni fa, Stefano Rodotà aveva profeticamente anticipato come attorno al nesso tra privacy e presenza sul web si giochi una partita fondamentale per la salvaguardia delle nostre libertà individuali e collettive. Per quanto la privacy non esaurisce le libertà della persona, i legami tra i due sono sempre più stretti , spiegava il giurista, a capo dell’ufficio del Garante della privacy dal 1997 al 2005, citando lo stesso Zuckerberg e la sua affermazione che la privacy non esista più, per metterci in guardia dall’abbassare le difese contro le ingerenze costanti nella nostra sfera personale che minano l’ autonomia personale e la crescita democratica della società.

Un tempo si diceva Io sono quello che affermo, oggi Io sono quello che appaio su Facebook o su Google... E allora, se siamo espropriati dalla nostra identità, come non pensare che le nostre libertà non siano pesantemente poste sotto scacco? Che la circolazione e il monopolio dei nostri dati da parte di imprese, agenzie governative e da consulenti dal volto ambiguo non scalfiscano giorno dopo giorno i confini della democrazia?

La posta che si gioca oggi è alta, è quella del controllo pervasivo e globale, e c’è da chiedersi se di fronte ai giganti che dominano la rete e ad utenti che dimostrano una crescente tendenza all’assuefazione, abbassando la guardia sulla protezione dei propri dati, sia sufficiente l’attuale quadro giuridico o se sia necessario aggiornarlo con strumenti legislativi capaci di volta in volta di riportare ad equilibrio il sistema, che indichino quando e come valori fondamentali della persona possano essere sacrificati (oggi il confine è quello della “guerra globale” al terrorismo), quali limiti sono invalicabili (ad esempio, quello della salute e della libertà d’azione in casi, sempre più IMG_0036numerosi, di impianto di microchip sottopelle, che ci trasforma in persone perennemente connesse e ‘protette’ ), quali sono i tempi di conservazione dei dati, in quali casi possano essere ceduti legittimamente a terzi, la possibilità di gestirli in autonomia e di cancellarne le tracce quando non ci interessano più o risultino dannose. Temi, questi, affrontati dal Regolamento Ue, che entrerà in vigore dal 25 maggio.

La corsa ai like e ai followers o alle pagine che parlano di noi in rete ha acquistato ormai un retrogusto amaro. Così come la paura del nuovo terrore, in nome della quale accettiamo di essere scrutati e ascoltati da occhi e orecchi invasivi, che evocano la società dominata dal Grande Fratello descritta da Orwell in 1984, romanzo scritto nel 1948, quando era ancora vivo il ricordo del regime hitleriano. Oggi il rischio, nell’eterno presente in cui siamo immersi, è quello di non avere più memoria del passato e di dimenticare che le nostre democrazie sono un bene prezioso ma fragile, e purtroppo non eterno.

 

Noi pensiamo di discutere soltanto di protezione dei dati, ma in realtà ci occupiamo del destino delle nostre società, del loro presente e soprattutto del loro futuro. … Senza una forte tutela delle informazioni che le riguardano, le persone rischiano sempre di più d’essere discriminate per le loro opinioni, credenze religiose, condizioni di salute: la privacy si presenta così come un elemento fondamentale dalla società dell’eguaglianza. Senza una forte tutela dei dati riguardanti le convinzioni politiche o l’appartenenza a partiti, sindacati, associazioni, i cittadini rischiano d’essere esclusi dai processi democratici: così la privacy diventa una condizione essenziale per essere inclusi nella società della partecipazione. Senza una forte tutela del “corpo elettronico”, dell’insieme delle informazioni raccolte sul nostro conto, la stessa libertà personale è in pericolo diventa così evidente che: la privacy è uno strumento necessario per difendere la società della libertà, e per opporsi alle spinte verso la costruzione di una società della sorveglianza, della classificazione, della selezione sociale. (S. Rodotà, Privacy, libertà, dignità, Discorso conclusivo della 26ma Conferenza internazionale sulla protezione dei dati)

(Nelle immagini, Nature, le trame dell’esistenza di Zeroottouno, al Marca di Catanzaro)

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11. aprile 2018 by Anna Puleo
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Colson Whitehead e il cuore profondo dell’America razzista

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“Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo lawrence3 schiavidell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!

Così Martin Luther King chiudeva la Marcia su Washington per la Libertà e il Lavoro nel 1963. Quel sogno diventerà una realtà con il riconoscimento, due anni dopo, del diritto di voto anche ai neri d’America. Una vittoria striata dal sangue di King che il 4 aprile 1968 veniva ucciso da un razzista bianco. Le sue parole riemergono nelle proteste degli anni ’60 e ’70 e oggi nelle battaglie degli studenti che hanno marciato contro la vendita libera di armi nella March Our Lives, alla quale ha partecipato anche la nipotina di King, e di Black Lives Matter , il movimento che si batte contro gli atti di razzismo perpetrati dallo stato e dai suoi agenti contro gli afro-americani.

Vittime di una violenza cieca e sorda che percorre dalla sua nascita gli Stati Uniti d’America. Arriva da lontano la vena di violenza, razzismo, intolleranza che da sempre dilania profondamente gli States e che un anno fa ha condotto Trump alla vittoria.

Un passato senza il quale non siamo in grado di fare i conti con il presente, esplorato dallo scrittore Colson Whitehead nel bellissimo La ferrovia sotterranea, tradotto magnificamente da Martina Testa per Sur, che alla sua uscita non solo ha ottenuto i commenti entusiasti di Barack Obama e di Oprah Winfrey quanto si è aggiudicato due prestigiosi premi come il National Book Award e il Pulitzer. Con un linguaggio affilato come una lama d’acciaio e potente come un tuono lo scrittore newyorchese evoca la lunga stagione della schiavitù negli States e le origini e il destino della nazione americana.

Cora è una ragazza di poche parole e altrettanto scarse certezze, ma, in compenso, ferme e non contrattabili, come quel minuscolo fazzoletto di terra che la madre ha strappato al padrone per lasciarlo alla figlia, spazio esterno e interno insieme nel quale coltivare qualche sparuta piantina e la propria anima. Un’isola di libertà ritagliata nella piantagione di cotone dove vivono, lavorano, muoiono migliaia di schiavi, schiacciati dalla fatica e dalle continue velawrence 4 america schiavissazioni, prede del padrone e dell’inesorabile ingranaggio della storia.

Anche Cora è una preda ma non una vittima, usa il suo corpo per riparare un bambino dal bastone del padrone, alza lo sguardo sugli uomini della sua razza -rapaci e prepotenti, allo stesso modo dei maschi bianchi-, contrappone all’insensata violenza che la circonda, che scortica vivi uomini e donne, li brucia sul rogo, taglia piedi e mani per impedire la fuga e i furti, una volontà irriducibile. Riuscirà a fuggire grazie a una ferrovia sotterranea e all’aiuto di un gruppo di ribelli abolizionisti e, di stato in stato, nella sua fuga verso il Nord ritroverà in forme diverse eppure sempre uguali il peso minaccioso e brutale del razzismo.

Per via della sua tenera età, i suoi carcerieri non rivolsero subito le proprie voglie verso di lei, ma alla fine, un mese e mezzo dopo l’inizio della traversata, alcuni degli ufficiali più stagionati la tirarono fuori dalla stiva. Durante il viaggio verso l’America Ajarry provò due volte a uccidersi, la prima rifiutandosi di mangiare e poi tentando di annegarsi. I marinai, avvezzi agli stratagemmi e alle inclinazioni degli schiavi, glielo impedirono entrambe le volte. Quando cercò di buttarsi in mare, non arrivò neanche al parapetto.

La sua storia si intreccia con quella del nuovo mondo, paradiso colmo di promesse per alcuni, inferno abissale per altri; con quella di James Randall, il proprietario della piantagione, che usa i suoi schiavi per mandare a memoria e declamare davanti agli ospiti tutta la Dichiarazione d’Indipendenza, degli uomini delle pattuglie <<bianchi, corrotti e spietati…troppo stupidi per lavorare anche solo carte schiavitu lawreance2ome sorveglianti>>, braccio armato degli schiavisti, che hanno dalla loro anche le leggi. E con le storie di Martin che la nasconderà per mesi in casa e pagherà con la vita o dei Valentine, falciati dalla furia umana per avere sognato un mondo diverso e avere cercato di dare linfa e ali a quel sogno, con il cacciatore di schiavi Ridgeway, filosofo del male e del destino della nazione, frutto della volontà divina, che la segue per mezza America, ossessionato dalla donna che sta beffandolo e umiliandolo, come aveva fatto già Mabel, sua madre.

Cora punta lo sguardo sul mondo e lo vede per com’è, una grande gabbia in cui uomini e donne sono prigionieri, incatenati <<mani e piedi alla paura>>, all’attesa del nemico, convinti che il loro numero li proteggerà dall’oscurità.

La libertà era qualcosa che cambiava forma mentre la si guardava, così come un bosco è fitto di alberi visto da vicino ma dall’esterno, da un campo aperto, se ne vedono i veri limiti.

Cora lo sa, come sa che il suo orto nella piantagione dei Randall era l’ombra di altro, come

la Dichiarazione d’Indipendenza recitata dal povero Michael era l’eco di qualcosa che esisteva altrove. Adesso che era fuggita e aveva visto qualche altra parte del paese… non era più sicura che il documento descrivesse qualcosa di reale. L’America era un fantasma nell’oscurità, come lei.

Come Ulisse, e Gulliver, cui Whitehead dicarte migranti lawrence1e di essersi ispirato, Cora affronta l’ignoto, e il pericolo sempre in agguato di essere catturata e riportato dal suo padrone e probabilmente punita con la vita per la sua ribellione, il viaggio tra i marosi nella ferrovia sotterranea –utopia letteraria e splendida metafora della nostra esistenza- per capire che dietro il velo si cela il vero volto del Nuovo Mondo e che dalle profondità del tempo e dello spazio sta avanzando una nuova generazione.

Se volete vedere com’è fatto davvero questo paese, io lo dico sempre, dovete prendere il treno. Mentre andate a tutta velocità guardate fuori, e vedrete il vero volto dell’America

Nelle vene aperte dell’America scorrono fiumi di sangue e di illusioni, l’ illusione di poter guarire dalle ferite della schiavitù, ignari che <<certe cicatrici non guariranno mai>>, perché come fai a guarire quando hai visto tua madre venduta, tuo padre straziato dalla frusta, tua sorella stuprata, e l’illusione più grande di tutte, quella di una grande nazione, faro di luce, di pace e libertà, per tutte le altre. E invece la nazione americana è stata edificata sulla forza, sull’omicidio e la brutalità, si è appropriata della terra da sempre appartenuta e abitata da altri popoli e per coltivarla ha messo in catene legioni di uomini e donne arrivati dall’altra sponda dell’Oceano, con le loro lingue e i loro lawrence6 schiavitùcanti, le loro storie e i loro sogni.

A darci speranza, fa dire Whitehead a uno dei suoi personaggi, è la capacità di credere in noi, un noi plurale, il noi di milioni di uomini e donne che hanno con le loro mani costruito tutta una nazione, accomunati dal colore della pelle e da un comune destino, un colore che li ha aiutati a mettere a frutto la lezione della storia per poter costruire un futuro.

Il colore ci deve bastare. Ci ha portato fino a questa sera…e ci porterà nel futuro. L’unica cosa che so davvero è che siamo destinati a crescere o a crollare insieme, una grande famiglia di colore accanto a una grande famiglia bianca. Magari non sappiamo che strada prendere per attraversare il bosco, ma possiamo rialzarci l’un l’altro quando cadiamo, e alla meta arriveremo insieme.

Questa sera, con le campane che suoneranno all’unisono in molte città al di qua e al di là dell’Oceano per ricordare Martin Luther King, rimbomberanno anche queste parole, chiare e potenti come quelle pronunciate cinquant’anni fa dal leader di Atlanta, da Malcolm X, da donne come Rosa Parks e come Cora, che ci parlano ancora, mezzo secolo dopo, di paure e terrore, di suprematisti e razzisti, di odi e rancori mai sopiti.

(Nelle immagini opere di Jacob Lawrence, Migration Series)

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04. aprile 2018 by Anna Puleo
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Il retrogusto inquietante della scienze secondo il Nobel Ishiguro

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Una grande casa immersa nella campagna inglese. Qui vivono e studiano Kathy, Ruth e Tommy insieme ad altri ragazzi e ai loro tutori. Non hanno un passato e, lo scopriranno poco per volta, neanche un futuro. Quale futuro possono avere del resto dei donatori, cloni della razza umana, pezzi di ricambio pronti a sostituire quelli resi inservibile dalle malattie? Cose da usare e buttare. “Degli oggetti indistinti in una provetta per i test”, buoni a rifornire la scienza medica. Ma anche esseri che provano amore, passioni, amicizia, rabbia, paura, dolore. Che hanno un cuore. E un’anima.

 

Siamo negli anni ’80, una guerra (nucleare?) ha devastato il pianeta, le malattie incurabili si sono moltiplicate diventando un’emergenza, ma la scienza ha trovato un rimedio coltivando in laboratorio zaodao1schiere di donatori, puri materiali organici buoni ad assicurare una possibilità di fuga dalla sofferenza e dalla morte.

Gli studenti di Hailsham, così si chiama il collegio, sono il frutto di un nuovo esperimento: dimostrare che i donatori sono capaci di pensare e sentire. Ma tornare indietro non è più possibile. “Come si può chiedere a un mondo che è arrivato a considerare il cancro come una malattia curabile…di accantonare la cura, di tornare nell’età infelice dell’impossibilità?”. Hailsham verrà chiusa e i suo studenti lasciati al loro destino di morte.

Non lasciarmi (Never let me go) é uno dei romanzi più famosi (anche grazie alla riduzione cinematografica) di Kazuo Ishiguro, nato a Nagasaki ma inglese d’adozione, Nobel per la letteratura nel 2017. Un romanzo di formazione che riflette sull’ amore e l’amicizia e sulle magnifiche e progressive sorti della scienza che rivelano sempre un altro lato, un risvolto dal sapore acidulo e inquietante. Quello di Ishiguro tuttavia è il racconto non di una società distopica ma di un day after non lontano. Dopo la pecora Dolly, la scienza ha continuato a clonare animali, fino ad arrivare, è notizia di pochi giorni fa, a riprodurre due macachi, la specie più vicina a quella umana.

Lo scrittore si fa carico di un dibattito complesso e incandescente sui profili scientifici ed etici della riproduzione di esseri viventi per sollevare il velo sul nostro presente, su una società fragile, in preda a una crisi di nervi, incapace di riflettere su se stessa, sul nostro modo di stare al mondo, sulle nostre paure, sui nostri egoismi.

I donatori sono figli del desiderio prometeico di catturare il fuoco degli Dei, di conquistare il saperezaodao3 che rende liberi dal circuito eterno della vita e della morte. Sono mostri che ci fanno paura, perché è la nostra immagine riflessa nello specchio. Chi ha creato Hailsham lo sa e cerca di addomesticare i demoni, di restituire un ritratto migliore di noi stessi, salvo non osservare meglio dentro la cornice e, come Dorian Gray, trovarci a fissare il nostro vero volto, non quello sempre giovane e bello assicurato da creme, diete super-proteiche e dal bisturi del chirurgo estetico, ma l’altro segnato dalla vita e dal tempo.

Un mondo nuovo si sta avvicinando a grandi passi, un mondo più scientifico, più efficiente. Un mondo dal quale la malattia e la sofferenza sono bandite. Un mondo splendido. Eppure duro e crudele. Cinico e privo di memoria. A salvarlo, forse, sarà una bambina, riproduzione in vitro di un’ altra donna, che balla ad occhi chiusi, seguendo la melodia di una vecchia canzone, Darling, hold me, hold me, hold me. And never, never, never let me go…

(Le illustrazioni sono firmate da Zao Dao, giovane artista cinese che fonde la millenaria tradizione artistica della sua terra con il fumetto, protagonista di Bologna Childrens Fair 2018)

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30. marzo 2018 by Anna Puleo
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Cinema: Loveless, i bambini ci guardano

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“Solo e pensoso i più deserti campi /vo’ misurando a passi tardi e lenti”, scriveva Francesco Petrarca ricordandoci che la solitudine è spazio da percorrere con passo lento e costante dove ritrovare se stessi e il mondo. Uno spazio altro da quel ‘deserto tascabile’ che ci portiamo dietro ogni giorno, nelle forme sempre più tecnologiche di uno smartphone o di un pc, nel lavoro, per strada e poi a casa, come ricordava qualche settimana fa Pier Aldo Rovatti dalle pagine de L’Espresso.

 

loveless3Alla nostra quotidianità asfittica e plumbea, intessuta da delusioni e paure, frustrazioni e rancori, più o meno sopiti, nevrosi e violenza, abbiamo trovato un antidoto, la fuga in un mondo artificiale di emoticon e rapporti artificiali, edulcorati dalla comune sofferenza, cui demandiamo il compito di pensare, agire, di vivere per nostro conto.

Niente assunzioni di responsabilità, nessuna aspettativa, solo un eterno presente in cui vaghiamo “in attesa di”, volgendo lo sguardo al tempo trascorso, giacchè il futuro ha assunto le forme di un essere mostruoso dallo sguardo di fuoco.

Tema di riflessione trasversale, che percorre le società dell’Europa dei paradisi fiscali come la Russia di Putin, che ha restituito al suo popolo il dominio perduto nello scacchiere internazionale e un insperato sviluppo economico. Palazzoni sorti come funghi nelle periferie di Mosca dell’era putiniana si ergono come sentinelle tra la nebbia, loft luminosi e appartamenti in cui imperano cucine colorate e forni a microonde, sfolgoranti ipermercati colmi di merci fino al soffitto, tra cui si muove una umanità in cerca di se stessa.

E’ la Russia dello zar Putin e dei nuovi ricchi, della rampante Chiesa ortodossa, di una società in cui tutto diventa a portata di mano, dove desideri e ambizioni possono essere velocemtne soddisfatti, tranne che per le migliaia di bambini che vagano negli interstizi delle città in balia di se stessi, una piaga antica che si è riaperta di nuovo dopo il crollo dell’Unione Sovietica con numeri altissimi.

loveless-foto-del-film-russo-premiato-a-cannes-2017-2A raccontare la Russia del Terzo millennio è il regista  Andrey Zvyagintsev in Loveless, tra atmosfere ghiacciate, fotografia dai colori metallici che riflette il ghiaccio dei cuori. Figlio di una coppia sull’orlo di una crisi di nervi, in procinto di divorziare, frutto di uno scherzo del caso, che lo ha catapultato in mezzo a due bambini cresciuti solo anagraficamente, il piccolo Alioscia decide di eclissarsi una mattina d’inverno, sotto la neve che cade placida e indifferente.

Il film segue con spietato rigore le sottili geometrie dei cuori, piroettando tra la rabbia e i livori della coppia, la precarietà esistenziale e lavorativa di lui, i nodi antichi e mai sciolti di lei, i sentimenti ormai anestetizzati (senza amore, appunto, come recita il titolo della pellicola).

Troppo impegnati a seguire le rispettive traiettorie di vita e a gettarsi fango addosso, i due finiscono per dimenticare di avere un figlio. A farne le spese è Alioscia, insieme ai nuovi partner dei genitori, ignari di avere firmato una cambiale in bianco che aspetta di essere riscossa.

Il gelo circonda persone e cose, enfatizzato dalla fotografia dai colori metallici, dai lunghi piani loveless_cinelapsussequenza che seguono la coppia nei grandi open space aziendali e tra le nebbie che rivestono le periferie della capitale e gli scheletri di edifici abbandonati e arrugginiti, emblema del disfacimento di un’epoca. A Mosca, come a Londra o nella Grande Mela. A sottrarsi è solo il gruppo di volontari che si sostituiscono alla polizia nella ricerca dei bambini scomparsi, gli unici a portare un briciolo di umanità nella desolazione dilagante.

Alla fine, la neve continua a scendere placida e indifferente sugli alberi rinsecchiti del bosco, sulle lacrime di una donna che corre sul tapis rulant, su un uomo che neanche il pianto di un bambino riesce a far tornare indietro, sulla sofferenza, la rabbia, la frustrazione che uccidono tutto, anche l’amore.

 

 

 

 

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20. marzo 2018 by Anna Puleo
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Water Warriors, le guerriere dell’acqua negli scatti di Lynn Johnson

*With a water tap only 4 months old the kids at Kella School are still beyond energetic during their afternoon water break. They crowd around spraying water and drinking from the tap controlled by a teacher. They used to have to run to the river or go without which severely affected their ability to concentrate.

Il sole si è appena alzato sulla immensa distesa desertica, arsa dal calore. Come ad un appuntamento tacito, le donne escono in silenzio dalle case di laminato rovente che hanno sostituite quelle di sterco e fango che ogni generazione di Masai tramanda a quelle successive. Sulle spalle portano una tanica che presto sarà piena di acqua fangosa. Lynn Johnson sa che è il momento giusto per iniziare a scattare. I suoi scatti fanno il giro del mondo, diventano una denuncia potente degli effetti dei cambiamenti climatici e della grande siccità che sta mettendo in ginocchio l’Africa.

 

water slavesNon si sa quanto queste donne cammineranno per trovare il liquido prezioso, forse due ore o due giorni. A loro poco importa. Da quando siamo nati, questa è la nostra vita, dicono con rassegnazione. E’ il loro destino, lo condividono con altre, tante, donne in altri paesi dell’Africa, e non solo. Portare acqua significa portare la vita nel villaggio, anche a rischio di essere colpita dalle malattie o dalla mano dell’uomo. Avere acqua significa coltivare uno scampolo di terra secca, produrre cibo che nutre, mandare le figlie a scuola.

Lynn Johnson la ha chiamate Water Warriors, guerriere dell’acqua. Guerriere che combattono con una forza indomabile perché la vita torni nelle loro case. Anche Lynn è una guerriera. Le sue armi sono la macchina fotografica, l’invisibilità di fronte ai soggetti che ritrae, una dose sufficiente di indignazione e compassione che porta con sé, dovunque vada.

Organizzazioni come National Geographic, World Press Photo, il prestigioso Robert F. Kennedy Centre for Justice and Human Rights l’hanno premiata per avere ritratto ciò che ci passa ogni giorno accanto ma che non vogliamo vedere: razzismo, stupri, malattie, siccità. Dalle pagine di National Geographic e Life Johnson continua a farci vedere con la forza delle sue immagini ciò che davvero siamo o possiamo essere, a indurre non solo emozioni ma a perseguire il cambiamento. A non restare inerti davanti a un computer o alla Tv ma a rimboccarci le maniche.

Si stima che la mancanza di acqua colpirà nel 2020, ossia tra due anni, oltre 250 milioni di persone e

*The only hope for women in this area is education and thanks to Alemitu and her husband,Enrico, these girls, holding their final report cards proudly, have been able to go to school. They attend Mechello School with support for books and food and general encouragement for girls-so much so that the girls now outnumber the boys. But this is rare in the Ethiopian countryside where boy are still favored and girls are beasts of burden.

tra venti anni quasi l’80% delle coltivazioni di cereali. Tra Kenya, Etiopia e Somalia è ormai emergenza umanitaria. E’ in quest’area vastissima che il riscaldamento globale, soprattutto lo sviluppo dissennato del mondo occidentale, ha colpito in maniera massiccia tranciando milioni di vite e un equilibrio socio-politico già precario, che rischia di essere definitivamente travolto dalle migrazioni di centinaia di migliaia di persone che ogni giorno si mettono in viaggio verso il nord del Continente nero, verso l’Europa.

Secondo le previsioni più pessimiste, non ci vorrà molto a che il Sahel diventi un immenso deserto che spingerà a partire milioni e milioni di uomini e donne, in uno dei più imponenti esodi che la storia ricordi.

A crescere è anche la lista dei conflitti per l’acqua, dalla Siria al Sudan, dall’India al Pakistan, fino alle rive del Mekong e ai paesi dell’Occidente dove si protesta contro la privatizzazione delle risorse idriche.

Il prossimo 22 marzo sarà la Giornata mondiale dell’acqua. L’occasione giusta per ricordare che l’acqua non è più un bene di cui possiamo godere a iosa, né sempre un bene comune, per segnare in agenda termini come water grabbing (accaparramento d’acqua), water wars, siccità, emigrazioni. E per andare a vedere le foto di Lynn Johnson, in questi giorni esposte nella mostra Water Warriors, grazie alla partnership tra Blue Ocean e National Geographic, a Catanzaro, nei locali restaurati dell’ ex Stac, P.za Matteotti.

(Ph. Lynn Johnson https://www.lynnjohnsonphoto.com/)

water slaveswater slaves

 

 

 

 

 

*(This family is the writerÕs main focus) they are a fairly typical family living in as yet an unserved village of Foro. Wife-Aylito Binayo, Husband-Guyo Jalto, Oldest-Kumacho Guyo-4, Marcos-2, Petros-10 mos. Often the children are left alone when mom has to collect water fom the spring. The trip takes about 2-3 hours but she has no choice. If Kumacho feels ÒaloneÓ he said he just goes to a neighbors compound, The scabs on his nose are from a fall he had while carrying his youngest sibling.

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13. marzo 2018 by Anna Puleo
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